La lezione del Pd a Torino: libertà di contestare, violenza da reprimere. Sempre

A Torino siamo arrivato rapidamente a un punto di snodo, tra la legittimità della contestazione e la illegittimità della violenza, anche politica.

L’uso della forza è esclusiva dello Stato, e in una democrazia occidentale come vuole essere l’Italia non c’è spazio per ambiguità. Il principio vale e valeva perfino nelle dittature, solo che le organizzazioni di regime come le squadre d’azione mussoliniane o i basij degli ayatollah iraniani godono poi di trattamenti di riguardo da altre parti dello Stato, specie la magistratura.

Non ho il minimo dubbio che il questore di Torino abbia ragione: la polizia è un organo amministrativo, che agisce secondo le indicazioni politiche e nel caso di Torino le indicazioni politiche le ha date il Pd padrone di casa.

Difficile era anche la posizione degli organizzatori Pd, consapevoli certamente del rischio di contestazioni, ma altrettanto consapevoli del rischio fortissimo d’immagine che sarebbe venuto da una blindatura dei dibattiti.

Hanno scelto il rischio e hanno fatto bene. E ha fatto bene anche la polizia a attenersi alle istruzioni ricevute. Se fossero andati oltre, per eccesso di zelo, è probabile che ne avrebbero trovato pochi, nella sinistra del salotto e del “ma non è il modo” disposti a dargli copertura politica.

Ha sbagliato chi ha avuto reazioni isteriche come Enrico Letta, che è arrivato a parlare di guerra civile. Dai, non scherziamo, è meglio che il Pd organizzi al più presto corsi di storia per i suoi vertici. La guerra civile è una cosa ben diversa non solo dal momento presente, ma anche dai giorni più aspri degli anni di piombo.

Certo è un momento di alte tensioni, cui  hanno contribuito e contribuiscono tutti, destra e sinistra, giornali e tv, Berlusconi e i suoi nemici. Siamo in un momento di intensa dialettica politica, dove si sono persi i confini del valore delle parole: basti pensare se sia concepibile che il presidente della  Camera dei deputati dia dell’infame a un suo avversario.

Siamo, dobbiamo esserne consapevoli, in un momento delicato: il passaggio dalle parole ai fatti  può avvenire in qualsiasi momento, perché non viviamo in un mondo virtuale, ma in mondo di uomini e donne fatti di carne e ossa e cervelli a volte distorti e malati.

Si ritorna a un problema di ordine pubblico, a un problema di polizia. Oggi la polizia non è quella, figlia dell’Ovra, che affrontò il terrorismo con registri di carta e archivi bisunti. Oggi ha gli strumenti tecnologici, un po’ meno quelli giuridici, ancor meno la copertura giudiziaria, specie per quanto riguarda la micro criminalità, inclusa quella politica.

In questo senso non aiutano le accuse mosse alla Questura di Torino da esponenti del Pd, non si sa se per poca tenuta del sistema nervoso o solo per avere garatntito il titolo sui giornali.

Però c’è un altro pericolo che si corre, che è ancora più grande. Che il clima da guerra civile così stoltamente evocato giustifichi misure di eccezione a 360 gradi, che colpiscano anche le parole e la libertà di pronunciarle, che in democrazia deve essere assoluta e totale.

Non dobbiamo nasconderci dietro un dito. Dobbiamo essere consapevoli che non c’è soluzione di continuità tra parole e fatti, tra piccoli atti e grandi atti. Leggete quel po’ di storia del terrorismo in Italia negli anni di piombo che è disponibile sui siti internet e vedrete che si è cominciato con i volantini, prima di passare agli azzoppamenti e agli assassinii.

Così è successo a Torino che dai fischi a Schifani si sia passati al razzo contro Bonanni. Ma non siamo Alice nel paese delle meraviglie. Dobbiamo sapere che c’è un confine tra parole e fatti, dobbiamo tracciarlo e tenerlo, con coerenza e anche coprendo chi quel confine deve fare rispettare, cioè le forze dell’ordine.

Dobbiamo anche sapere che non saranno due randellate della polizia a tenere lontano chi ha scelto il martirio e cerca un po’ di sangue per affermarlo.

Dobbiamo soprattutto sapere che la libertà di parola va difesa, sempre e comunque, perché questo qualifica la democrazia. Dare del fascista e dello squadrista al disturbatore è sbagliato. Più intelligenti Blair e Dell’Utri, che hanno evitato il confronto (poi Dell’Utri si è anche blindato, ma così ha evitato lo scontro), ma sono stati zitti, non hanno strillato come galline.

Dare del fascista al disturbatore è sbagliato, dire alla polizia stai a casa è altrettanto sbagliato: è sulla linea in mezzo ai due errori che si colloca la saggezza della libertà in democrazia.

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Marco Benedetto