Se il sindaco di Milano Moratti è una oriunda, dove sono i padani di Bossi? Ma non è con le battute di Fini che si risolve un profondo problema politico

Quando Umberto Bossi e i suoi della Lega parlano di superiorità padana, viene in mente che lo facciano per coprire un complesso di inferiorità, ben consapevoli che i “padani” sono ricchi solo perché vivono più vicini al grande mercato franco–tedesco di quanto non lo siano i poveri meridionali.

Non ci sarebbe da occuparsene, la polemica è vecchia come l’Italia. L’inno nazionale milanese, “O mia bela Madunina”, fu scritta nel 1935 e se la prende con quelli che dicono ”lontan da Napoli se moer”, ma poi “i vegnen chi a Milan”, dove, ovviamente, e così era anche in quegli anni, “se sta mai coi man in man”.

Ora però è diverso, l’Italia ci si sta avvelenando, e l’attenzione collettiva si distoglie dal tema centrale di quel che serve per rimettersi in marcia. Si scopre anche che a pensarla da padani non sono quattro gatti ma forse milioni. Non basta trattarli come degli svitati: è un problema politico centrale e se è una malattia dobbiamo sempre ricordare che malato è il motore dell’economia italiana.

Ha sempre sbagliato la sinistra delle alte burocrazie partitiche, dei giornali e dei salotti, a guardarli con schifo, anche perché in mezzo a quelli ci sono persone di primissimo ordine e di eccellenti capacità professionale.

Sbaglia la destra, quando, per bocca di Gianfranco Fini, che, incidentalmente, è anche presidente della Camera dei deputati di tutta Italia, dice sprezzante che “la Padania non esiste” Vero: la Padania è una invenzione, come lo è il Nord est. A Trieste, parlano con più dileggio dei riulani che dei meridionali, i Milanesi guardano ai bergamaschi come i berlinesi ai bavaresi.

Ma il problema politico c’è, c’è tutto, è in mezzo a noi, idealmente, culturalmente e anche geograficamente. Le battute non risolvono i problemi né li sdrammatizzano, anzi, li rendono ancora più acuti.

Detto questo, parlare di milanesità è un po’ patetico. La stessa sindachessa di Milano, che fa Moratti da sposata ma Brichetto da nubile, è mezza di origine genovese e brichetto in genovese vuol dire fiammifero. “A scia Brichetto” suona quasi come un malevolo soprannome.

Se anche il primo cittadino di Milan è “oriundo”, dove sono i lombardi doc? Può suonare offensivo, ma sono in fondo alla scala sociale, in fondo alla scala evolutiva. Scorriamo gli appunti del liceo, come se ci preparassimo all’orale di storia tra qualche giorno, e così ci ricordiamo che la storia dell’umanità è fatta di successive sovrapposizioni di popoli, uno dopo l’altro, un po’ si sterminavano, un po’ si mescolavano. Così è stato anche da noi.

Prima i Neanderthal o chissà chi, poi via via tutti gli altri. Un bel giorno, da un territorio al confine tra Francia e Spagna, sul Mediterraneo, sono partiti i Liguri che si sono sparpagliati un po’ in tutta Europa e hanno invaso l’Italia. Poi sono arrivati gli Etruschi, i Latini e i poveri Liguri sono rimasti nella loro Valpadana per diventare schiavi dei nuovi padroni, i Celti, cioè i Galli, quelli delle oche del Campidoglio. Non Celti, dunque, sono i progenitori dei lombardi, ma liguri, razza inferiore. Ancor fin oltre il mille, in era Carroccio, il confine nord del Ducato di Liguria era il Po: Padania pura.

Poi Celti e Liguri finirono sotto il tallone romano, al punto che un bel giorno Augusto gli tolse le terre e le distribuì ai suoi veterani, tutti meridionali, senza guardare molto per il sottile.

Caduta Roma, arrivarono i barbari a mettere sotto quei poveri padani. I Longobardi diedero il nome alla Lombardia, ma non si mescolarono molto con i padani asserviti. I Longobardi facevano i soldati, erano nobili. Restarono a comandare anche dopo Carlo Magno.

La maggior parte delle famiglie nobili italiane di antica origine sono longobarde: gli Este, i Visconti, i Gonzaga. Ancora oggi chiamano i figli con nomi che suonano scandinavo, come la terra da cui si mossero i loro avi. E i padani sempre sotto.

Si dipanarono i secoli e l’Italia diventò terra di conquista e di spoliazione da parte di tedeschi spagnoli, francesi. Il Nord Italia fu spazzato, esercito dopo esercito, fino a diventare colonia spagnola prima, austriaca dopo, tale rimanendo fino alla annessione al regno sabaudo, tra il 1859 e il 1918.

Alla vigilia della prima guerra di indipendenza, i contadini della Padania vivevano nella fame e nella miseria come e forse peggio dei loro fratelli meridionali. Milano era un paesone. Sant’Ambrogio, oggi centralissimo, era fuori dalle mura, proprio come quando ci abitava come gaulaiter il futuro imperatore Giuliano.

Milano è diventata la più ricca città italiana molto poco per merito dei padani o dei milanesi, molto di più per la sua collocazione centrale rispetto alla valle padana, al grande porto di Genova oggi e anche di Venezia ieri, ai valichi alpini e al gigantesco mercato europeo che si stende tra l’Atlantico e l’Oder.

Milano è cresciuta nell’ultimo secolo, accelerando dopo la guerra, assorbendo e amalgamando, come una gigantesca impastatrice, braccia e cervelli prima dalle parti povere del Nord, l’Appennino emiliano, il Veneto, il Friuli, la Liguria terre che hanno alimentato, al pari del meridione, l’emigrazione italiana nelle Americhe. Poi sono arrivati i meridionali. Ora gli extracomunitari.

Prendiamogli il Dna ai nostri padani: avranno amare sorprese. Celti? Alti e biondi se ne vedono in giro pochi. L’accento non è un parametro: lo prendi alla seconda generazione. A Milano ci sono, nei negozi, commessi di origine africana che parlano con l’accento milanese e questo mi commuove, è la misura che l’Italia cresce e che la crescita è stata cosi forte da sviluppare un nuovo mondo, più sano, più ricco: è il modello americano a sud delle Alpi. Milano, la Lombardia hanno generato qualcosa di più grande e di radicalmente diverso, astronomicamente distante da quel mondo di miseria e di servitù che il Carroccio non riuscì certo a trasformare.

Oggi le cose sono un po’ complicate dal fatto che il boom si è fermato e in queste circostanze l’identià etnica aiuta a definire meglio il recinto in cui arroccarsi in difesa dei propri interessi. Spesso è una guerra tra poveri, chi è del posto difende i suoi privilegi, il nuovo arrivato è disposto a lasciare un pezzo di paga e di garanzie in cambio di un lavoro.

Per questo è facile fare presa sulle paure di chi rischia il posto o il lavoro, perché c’è qualcun altro che ti incalza e minaccia di scalzarti; è facile fare presa sul rifiuto del diverso, sulla diffidenza che ti ispira chi è più povero di te, parla con un altro accento, e se poi ha differente anche il colore della pelle…

In questo senso, anche Fini farebbe meglio a stare zitto, visto che il suo partito di provenienza catalizza nel centro sud le stesse paure su cui prospera la Lega al nord. Ma sono giochi pericolosi, grattano la pancia profonda del sud come del nord ma gelano il sangue a chi, a nord come a sud, ammira la Lega, riconosce ai suoi uomini grandi capacità amministrative, ma non si riconosce in retrograde sparate di bassa demagogia.

Anche Hitler cominciò solleticando l’endemico anti semitismo dei tedeschi e poi sappiamo come è finita.

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