Invece affrontiamo i 150 anni di unità d’Italia con lo stesso stato d’animo di quando usciamo delusi da una festa riuscita a metà: ci dovevamo per forza divertire e imprechiamo.
In questo caso dobbiamo per forza celebrare. Gli schemi retorici della celebrazione sono micidiali, trionfo, progresso, tutto bene, niente male, ieri oscurantismo, domani irresistibile progresso.
Fossimo meno estremi, saremmo un po’ più indignati della presa in giro di queste celebrazioni, cui all’inizio ha dato la copertura del suo nome un nome illustre degli ultimi anni, l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Quelle celebrazioni, nella loro prima impostazione, erano una gigantesca operazione monumental-edilizia, interrotta dall’intervento dei carabinieri. Oggi sono solo un esercizio retorico e perciò vano e inutile. Forse non sarebbe stato male stanziare qualche soldo per delle ricerche serie, critiche, svincolate dai dogmi, sulle forze che influirono sulle origini recenti della nostra Italia di oggi.
Ma siamo nella tradizione. Per questo non dobbiamo restarci male quando scopriamo che lo stesso fatto emblematico dell’unificazione, la spedizione dei Mille, fu insozzato da sospetti di corruzione. Eppure uno dei nostri più bravi romanzieri, nonché garibaldino, Ippolito Nievo, morì mentre tornava sui passi della spedizione per difenderne la memoria da accuse di ruberie. Invece polemiche e sospetti sul fatto che ladri e profittatori accompagnassero la spedizione dei Mille non sono di oggi, che un furto colossale anche per gli standard contemporanei si sia consumato sul percorso tra Napoli e Palermo, vittima inconsapevole lo stesso Garibaldi, stratega, capo militare, eroe tra i più grandi della storia, ma certo privo di quegli strumenti di controllo dell’operato altrui che spesso è il limite della gente per bene.
Andò come andò, poteva andare diversamente, se i Savoia, e con loro la classe dirigente risorgimentale, avessero guardato al modello tedesco, al federalismo che Bismark ispirò e il Kaiser applicò, lasciando in vita anche i vari sovrani consorziati nel Reich, levandogli le leve del potere reale, politica estera, finanza pubblica, economia e anche esercito, pur conservando la base territoriale del reclutamento.
Ma Cavour era morto e l’aristocrazia piemontese, il cui orologio era fermo ai tempi dei codini, era tanto ipocrita da non volere ammettere nemmeno la realtà di avere annesso il resto d’Italia: siamo l’unico paese del vecchio mondo dove lo Stato che ha attuato l’unificazione ha rinunciato alla capitale; Parigi, Londra Berlino, Washington sono rimaste al loro posto, a segnare il successo dei conquistatori.
La classe dirigente milanese, dobbiamo ricordarlo, per quanto più moderna di quella sabauda, comunque era uscita da appena un paio d’anni da una condizione coloniale: li differenziava dal Kenya o dall’India neo indipendenti solo il colore della pelle, non l’impreparazione politica.
