Dobbiamo essere felici e orgogliosi della nostra Italia, dei progressi fatti in questi 150 anni: quasi dappertutto eravamo poco oltre il medio evo, in molte zone eravamo colonia, nel centro della penisola sotto una gerarchia ecclesiastica ancor più miope di oggi, dappertutto arretrati economicamente e culturalmente. Oggi siamo un grande paese, ricco e libero, profondamente democratico e dobbiamo esserne orgogliosi.
Dobbiamo dire grazie alle generazioni che ci hanno preceduto, al loro ormai dimenticato sacrificio anche di sangue, spesso inutilmente versato: pensiamo a quei ragazzi morti in guerra, morti senza sapere perché, pensiamo al loro sacrificio, sprecato da una classe politica il cui denominatore comune sembra essere stato, in questo secolo e mezzo, l’inettitudine. Il culmine furono i settecentomila morti per qualche pietraia del Carso e per l’ingratitudine postuma di qualche postero del nord est. Al tavolo della pace, i nostri alleati ci trattarono come dei pezzenti, anche per l’incompetenza dei politici dell’epoca, incapaci di comunicare in altre lingue e a districarsi nei labirinti sofisticati della diplomazia internazionale. Purtroppo, da allora, tranne alcune luminose eccezioni, non è cambiato molto se non in peggio. Oggi, il meglio che diamo sul piano internazionale sono le corna e le gaffes di Berlusconi e le sue imbarazzanti amicizie.
L’eccezione è costituita da quei politici del secondo dopoguerra, oggi invece da molti dileggiati nella sguaiata e quasi scurrile ricerca di compiacere i più irrazionali istinti delle periferie geografiche e morali. Ci diedero la Costituzione che in questi sessant’anni ha retto l’Italia nel percorso, quasi acrobatico, da proletaria e fascista a ricca e cosmopolita. Credettero nell’Europa e misero le premesse alla nostra prosperità di oggi. Non va trascurato che l’asse dell’Europa fu costruito da italiani e tedeschi, De Gasperi e Adenauer ne furono gli alfieri: forse avevano capito che solo in una nazione più grande, in un mercato più grande, fascismo e nazismo non sarebbero potuti tornare al potere.
Devono dire grazie soprattutto quegli italiani delle regioni periferiche che a vario titolo hanno sputato o sputano sul resto degli italiani che in parte li hanno mantenuti e li mantengono: i siciliani, quelli ancora ammalati di separatismo, i veneti e i friulani, quelli attardati di un secolo col rimpianto di essere la miserabile periferia di un impero che non c’è più, gli alto atesini che storcono la bocca e arricciano il naso al suono dell’inno nazionale italiano e che meriterebbero di essere passati all’Austria, quell’Austria con cui non vollero andare, consentendoci un miglioramento di qualche punto della nostra pressione fiscale. Basterebbe eliminare la specialità delle Regioni a statuto speciale e subito pagheremmo meno tasse. Solo l’ipocrisia impedisce ai politici, anche i più arditi come i leghisti, di affermarlo. Cercate risparmi? Cominciate da lì. Se ne vanno? Ma dove?
Invece affrontiamo i 150 anni di unità d’Italia con lo stesso stato d’animo di quando usciamo delusi da una festa riuscita a metà: ci dovevamo per forza divertire e imprechiamo.
In questo caso dobbiamo per forza celebrare. Gli schemi retorici della celebrazione sono micidiali, trionfo, progresso, tutto bene, niente male, ieri oscurantismo, domani irresistibile progresso.
Fossimo meno estremi, saremmo un po’ più indignati della presa in giro di queste celebrazioni, cui all’inizio ha dato la copertura del suo nome un nome illustre degli ultimi anni, l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Quelle celebrazioni, nella loro prima impostazione, erano una gigantesca operazione monumental-edilizia, interrotta dall’intervento dei carabinieri. Oggi sono solo un esercizio retorico e perciò vano e inutile. Forse non sarebbe stato male stanziare qualche soldo per delle ricerche serie, critiche, svincolate dai dogmi, sulle forze che influirono sulle origini recenti della nostra Italia di oggi.
Ma siamo nella tradizione. Per questo non dobbiamo restarci male quando scopriamo che lo stesso fatto emblematico dell’unificazione, la spedizione dei Mille, fu insozzato da sospetti di corruzione. Eppure uno dei nostri più bravi romanzieri, nonché garibaldino, Ippolito Nievo, morì mentre tornava sui passi della spedizione per difenderne la memoria da accuse di ruberie. Invece polemiche e sospetti sul fatto che ladri e profittatori accompagnassero la spedizione dei Mille non sono di oggi, che un furto colossale anche per gli standard contemporanei si sia consumato sul percorso tra Napoli e Palermo, vittima inconsapevole lo stesso Garibaldi, stratega, capo militare, eroe tra i più grandi della storia, ma certo privo di quegli strumenti di controllo dell’operato altrui che spesso è il limite della gente per bene.
Andò come andò, poteva andare diversamente, se i Savoia, e con loro la classe dirigente risorgimentale, avessero guardato al modello tedesco, al federalismo che Bismark ispirò e il Kaiser applicò, lasciando in vita anche i vari sovrani consorziati nel Reich, levandogli le leve del potere reale, politica estera, finanza pubblica, economia e anche esercito, pur conservando la base territoriale del reclutamento.
Ma Cavour era morto e l’aristocrazia piemontese, il cui orologio era fermo ai tempi dei codini, era tanto ipocrita da non volere ammettere nemmeno la realtà di avere annesso il resto d’Italia: siamo l’unico paese del vecchio mondo dove lo Stato che ha attuato l’unificazione ha rinunciato alla capitale; Parigi, Londra Berlino, Washington sono rimaste al loro posto, a segnare il successo dei conquistatori.
La classe dirigente milanese, dobbiamo ricordarlo, per quanto più moderna di quella sabauda, comunque era uscita da appena un paio d’anni da una condizione coloniale: li differenziava dal Kenya o dall’India neo indipendenti solo il colore della pelle, non l’impreparazione politica.
Quanto all’Italia del sud, non sembra un caso che alcuni dei più importanti romanzi che descrivono, negli anni successivi all’unità, la delusione diffusa e l’incapacità della classe dirigente, siano opera di due siciliani, Federico De Roberto e Luigi Pirandello (I viceré, I vecchi e i giovani).
I tedeschi venivano da mezzo secolo di mercato comune ed erano anche allora più numerosi di noi, divisi a metà dalla Chiesa, con un mercato comune attuato successivamente all’unità con criteri solo ideologici, in modo da azzoppare per cent’anni il Meridione.
Su queste basi siamo un miracolo: nel cocktail ci dovete anche mettere uno Stato confessionale e un Meridione fermo a mille anni prima, il feroce scontro fra comunismo e anticomunismo, tra fascismo e antifascismo, pochi paesi ce l’avrebbero fatta.
Tentiamo invece un bilancio, con quel tanto di disincanto e libertà dalle illusioni che dovremmo avere accumulato, nella media, con l’esperienza di vita. Non è una sciocchezza dire che siamo tutti uguali, che, almeno in partenza, non ci sono differenze di razza e classe, latitudine e longitudine che tengano. La differenza tra i paesi è data dalle istituzioni del presente e dalle eredità del passato, è data soprattutto dalle dimensioni del mercato, perché il tuo modo di pensare si adatta ai suoi confini, siano essi quelli del continente nord americano, degli imperi coloniali inglese francese o tedesco o dal regno terragno austro-ungarico.
I grandi uomini non nascono grandi, è la grandezza dei problemi che si abituano ad affrontare a renderli tali. Vittorio Emanuele Orlando, in America, o avrebbe imparato a muoversi o sarebbe stato eliminato. Ma è anche vero che i Bush, padre e figlio, sono stati molto peggio, ma la forza della loro economia, data dai contorni geografici e economici del loro paese, è tale che gli Usa hanno incassato i due disastri come un gigante la carezza di un bambino.
Non dobbiamo mai dimenticare che quel che succede da noi succede o è successo negli altri paesi. Non dobbiamo rotolarci nel tormento di essere unici, speciali, convinti che solo da noi prosperino il male, la corruzione, l’invidia. Non dobbiamo rinunciare a combattere i nostri difetti, perché la rinuncia diventa un alibi per non fare.
Non buttiamoci giù.
Possiamo permetterci uno scontro politico senza quartiere e senza politica che non sembra però paralizzare la parte decisionale dello Stato: la macchina va avanti, l’ingranaggio gira. Ci sono scossoni, rallentamenti, difficoltà. Non si riesce a fare una riforma, anche se poi c’è da temere che quelli che parlano di riforme, e sono tanti, abbiano in mente modelli completamente opposti. Forse sarebbe da augurarsi che prima o poi ciascuno riempia le caselle. Tutti parlano di riforme ma nessuno dice la stessa cosa: il concetto stesso di riforma implica cambiamento e nel cambiamento c’è sempre qualcuno che ci guadagna e qualcuno che ci perde e chi è destinato a perderci non è mai felice. L’interesse generale viene dopo. Non è una divisiva riforma della giustizia che può soddisfare il generale bisogno di adeguamento della giustizia ai bisogni di oggi.
Siamo abbastanza forti da avere superato la terribile crisi economica di questi ultimi anni senza grandi traumi, nella totale distrazione del governo e della classe politica tutta, più incline a proclami demagogici che a affrontare i problemi.
Godiamo di un sistema sanitario impensabile pochi decenni fa, che non sarà perfetto, ci costerà carissimo, ma è degno di quello dei paesi più avanzati d’Europa.
Abbiamo il problema dei giovani senza il lavoro che vorrebbero e nessuno ha il coraggio di dirgli che i tempi che li aspettano saranno più duri, che siamo tornati indietro di mezzo secolo, che il pezzo di carta, da solo, non vale più. Molti di loro si accontenterebbero di un posticino sicuro, garantito, senza grandi prospettive di carriera: bisognerebbe dirgli che forse, con una nuova ripresa dell’economia e buone spintarelle qualcosa può anche succedere, anche se sulla possibilità di creazione di posti di lavoro inutili incombe la voragine dei debiti col sistema bancario internazionale, mascherati da prodotti finanziari innovativi.
Non è un grande destino quello che li aspetta, ma è quello che li abbiamo educati a sperare. Colpa nostra, delle generazioni che hanno sperato di dar loro un percorso di vita meno duro del passato, senza però fare bene i conti con quanto rimaneva in cassa.
Intanto in Italia vivono e lavorano milioni di stranieri, che sono il nostro futuro e il futuro dei nostri figli italiani. Anche quegli stranieri sono italiani, anzi sono il futuro dell’Italia. Non sono solo badanti o criminali, sono grandi lavoratori, gente dura, coraggiosa, che cerca una vita migliore da noi. Non è un caso che sempre maggiore sia la quota di nuovi imprenditori di origine non italiana.
Dobbiamo anche cercare di affrontare i nostri mali in modo sistematico, non episodico. Alla fine, Mani pulite ha fatto più male che bene. Ci ha dato la soddisfazione di vedere qualcuno in galera, qualcuno anche condannato, ma nessuno ha avuto la coerenza e il coraggio di introdurre regole che evitassero il ripetersi del male. Qualche legge demagogica e inutile se non dannosa, qualcosa tanto per avere i titoli sui giornali. Poi, vent’anni dopo quegli entusiasmi da sanculotti che scossero l’Italia, ci sentiamo dire che la corruzione dilaga più di prima, la mafia è più forte di prima.
Presi dalla lotta tra i bene assoluto, i Pm, e il male assoluto, Berlusconi, i nostri politici neppure sognano di affrontare in modo organico i nodi del funzionamento dello Stato, i gruppi di potere costituiti dai grandi burocrati che tengono in pugno il sistema da ben prima dell’Unità e sempre lì sono, indenni come salamandre tra Regno e Repubblica.
Ma forse dobbiamo accettare che nessuno dei mali che ci hanno afflitto e ci affliggono sarà più estirpabile. Possiamo fare degli sforzi per contenerli, correggerli ma dobbiamo anche sapere che una cosa sola ci può aiutare: essere parte di un sistema più grande, di un mercato più grande.
Ormai l’Italia è di nuovo, se mai è stata qualcosa di diverso, una espressione geografica. Il nostro peso internazionale è da operetta, la grande industria produttiva è in prevalenza tributaria di quella tedesca. In parte è stata distrutta scientemente dall’ottusità di partiti, sindacati e legislatori miopi. In parte, come nel caso Fiat, l’opera è in corso, in questo caso per un calcolo padronale egoistico ma altrettanto miope, nella totale distrazione di partiti, sindacati e legislatori ancor più miopi e questa volta anche inetti.
Per nostra fortuna siamo inseriti in un mercato continentale che è guidato da una Germania molto diversa da quella che ci ha fatto tremare, costruita a sua volta sul lavoro di milioni di italiani che vi hanno trovato benessere e cittadinanza, come oggi dobbiamo augurarci accada per gli immigranti a casa nostra. I più grandi e prosperi paesi del mondo, Stati Uniti e Germania, sono cresciuti sull’immigrazione, i primi avendone fatto sistema, la seconda avendo fatto di necessità virtù.
Politiche miopi, obiettivi retrò ci fanno tutti più poveri, cattivi, infelici. Se guardiamo ai nostri vicini, rancori secolari e odi millenari ci paralizzano, impossibili da estirpare.
Solo pensando che siamo un pezzo d’Europa potremo superare tutto questo e sperare in un futuro migliore anche per i nostri figli, con o senza laurea.
Purtroppo anche in questo siamo approssimativi, distratti, ce la mettiamo tutta per coltivare lo spregio che gli altri paesi europei nutrono verso di noi. Siamo provinciali e i nostri politici sono i nostri portabandiera. Tutti gli altri paesi europei considerano le cariche a Bruxelles come dei palliativi per trombati o dei parcheggi in attesa di rimbalzo, ma lo fanno con classe e eleganza e quel tanto di ipocrisia che è segno di civiltà. I nostri lo fanno apertamente, pronti a rinunciare al parlamento europeo per un consiglio comunale.
Ma non buttiamoci giù. Siamo un grande paese, non in decomposizione ma in crescita, godiamo di una libertà che nessuno ha mai conosciuto prima di noi Siamo carichi di difetti, è vero, ma abbiamo la forza per aggiustarli o meglio, di limitarli e limitarne l’effetto, impedendo che ci facciano perdere il passo con la crescita del sistema di cui siamo inesorabilmente, irrimediabilmente, fortunatamente parte integrante, l’Europa.