Bombe croate sui serbi. Sentenza giusta all’Aja

La stampa italiana (in piena sintonia con la reazione di Belgrado) ha commentato in termini pesantemente negativi la sentenza con cui la sezione di appello del Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra commessi nella ex Jugoslavia ha mandati assolti i generali croati Ante Gotovina e Mladen Markac, accusati di avere bombardato le inermi popolazioni serbe della Krajina nel corso dell’operazione denominata ‘Tempesta’, nel 1995. I due generali erano stati condannati in primo grado rispettivamente a 24 e a 18 anni di reclusione.

La principale accusa rivolta alla sentenza di appello è stata quella di essere stata dettata da ragioni politiche e non da ragioni giuridiche. Assolvendo i due generali, quella Corte avrebbe negato l’attuazione di una vera e propria ‘pulizia etnica’ da parte di Zagabria nei confronti delle popolazioni serbe della Krajina, contro l’evidenza costituita dall’espatrio forzato di oltre 200.000 serbi e dalla brutale uccisione, da parte dei militari croati, di circa 200 persone.

Premesso che i generali croati non dovevano rispondere, in quanto tali, dell’attuazione di una politica di pulizia etnica, ma del fatto di avere sottoposto a pesanti bombardamenti popolazioni civili ‘colpevoli’ di essersi trovate in prossimità di obiettivi militari, sembra che quell’interpretazione e quell’accusa debbano essere radicalmente rovesciate.

L’assoluzione è stata decisa – in modo sofferto, come dimostra la spaccatura verificatasi tra i giudici: tre contro due – su basi rigorosamente giuridiche, mentre sono le reazioni che essa ha suscitato a denunciarsi come manifestamente ispirate a considerazioni di ordine politico. Da un lato si sospettano pressioni da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea (la Croazia entrerà l’anno prossimo nell’Unione); dall’altro lato si rimprovera alla sentenza di non aver contribuito alla riconciliazione tra Belgrado e Zagabria, come se questo, e non il riconoscimento della responsabilità penale dei due imputati, fosse l’obiettivo principale del processo.

In realtà, le due sentenze pronunciate dal Tribunale dell’Aja nei confronti di Gotovina e Markac meritano di essere considerate nella loro valenza giuridica e nell’attualità che – purtroppo – esse rivestono con riferimento a un aspetto tra i più tragici, se non in assoluto il più tragico, della guerra moderna.

Sempre più spesso, ormai, le guerre non si svolgono solo tra eserciti contrapposti, ma coinvolgono pesantemente le popolazioni civili: sia che si cerchi di indebolire il morale dell’avversario attraverso operazioni di natura terroristica, sia che ci si faccia scudo dei civili per impedire all’avversario di attaccarci con tutta la potenza distruttiva di cui dispone.

Precisamente questo è il punto, decisivo per l’affermazione e il consolidamento del diritto umanitario di guerra: in quale misura e in che termini un comandante militare, nell’adempimento dei suoi compiti bellici (infliggere al nemico le maggiori perdite possibili), possa e debba tener conto dell’obbligo di rispettare le vite e i beni di quanti non facciano parte dell’esercito avversario o non svolgano azioni militari a suo sostegno.

La situazione si presenta ormai regolarmente nelle guerre che continuano a insanguinare il pianeta: prova ne sia il fatto che ormai da oltre un secolo il numero delle vittime civili della guerra supera di gran lunga quello dei caduti militari.

Cosa aveva stabilito a questo proposito il tribunale di primo grado, nel condannare i generali Gotovina e Markac?

Che gli obiettivi avuti di mira dalle loro artiglierie potevano senza dubbio considerarsi obiettivi militari, e che quindi era legittimo proporsi di annientarli.

Che tuttavia, essendo quegli obiettivi collocati all’interno di un insediamento civile fittamente abitato, era necessario stabilire un criterio che consentisse di discriminare i bombardamenti ‘ leciti’ da quelli ‘contro l’umanità’. Su queste premesse, condivisibili, i giudici di primo grado avevano fissato unilateralmente quel limite nel raggio di 200 metri dall’obiettivo. Entro i 200 metri, in sostanza, le cannonate erano ‘buone’, oltre i 200 metri dovevano ritenersi per questo solo ‘viziate’ dalla volontà di colpire dei civili inermi.

Nel caso in esame, i colpi andati a buon fine erano stati il 95% dei colpi complessivamente sparati dalle artiglieri croate (vecchie artiglierie di fabbricazione sovietica), mentre solo il 5% di quei colpi erano andati ‘fuori bersaglio’ e dunque su obiettivi non militari.

I giudici di primo grado –condannando su queste basi i due generali- ne avevano in sostanza ancorato la responsabilità a due principi entrambi incompatibili con l’essenza di una norma penale: a) che la responsabilità del comandante fosse una responsabilità oggettiva, legata al puro e semplice andare ‘fuori bersaglio’ (secondo un criterio stabilito a priori) di un certo numero di colpi; che quella responsabilità non dovesse dipendere da elementi valutabili ‘ a priori’ dal comandante, ma fosse legata ‘ a posteriori’ all’esito effettivo del bombardamento.

Questi due criteri si pongono in aperto contrasto sia con alcuni principi fondanti di ogni diritto penale (la responsabilità è personale, chi ne è investito dev’essere in grado di valutare il rischio relativo prima di determinarsi ad agire), che con la natura dolosa del crimine attribuito ai due generali , consistente nell’attentare intenzionalmente e deliberatamente all’incolumità delle popolazioni civili.

La scelta operata dai giudici di primo grado nel condannare Gotovina e Markac, se confermata in appello, avrebbe costituito un importante precedente, con effetti devastanti per la stessa applicazione del diritto di guerra.

I consulenti giuridici (che ormai, come è giusto, affiancano i vertici militari nelle loro operazioni sul campo) avrebbero sconsigliato ogni azione bellica anche solo lontanamente in grado di colpire dei civili. Dall’altra parte, ogni formazione militare sottoposta a un attacco si sarebbe sentita autorizzata a nascondersi e mimetizzarsi tra i civili, ponendo i comandi avversari nella tragica alternativa tra il condurre un attacco ritenuto indispensabile per il successo militare, ovvero il rinunziarvi di fronte al rischio di una condanna per essersi macchiati di un crimine di guerra.

In questo senso, si ha ragione di ritenere, devono aver ragionato i giudici dell’appello, la cui decisione ci sembra meriti approvazione e rispetto.

 

 

 

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Marco Benedetto