Si nasce vecchi, a Genova, o si impara presto a esserlo. Basta leggere i suoi giornali, guardare le sue vetrine, affacciarsi ai suoi rari caffè, orecchiare quella còcina ( genovese, per ‘accento’) così lamentosa, ingiustamente avvicinata al portoghese che è, se mai, malinconico e trasognato. Basta avventurarsi coraggiosamente nei suoi giardini pubblici abbandonati all’incuria , abitati da tossici e barboni. Basta fare una “vasca” nella un tempo sofisticata via XX Settembre, oggi dominata da negozi paravento, i bei pavimenti liberty butterati per le schifose macchie dei chewing-gum. Una peste, una lebbra inarrestabile percorre questa città una volta bellissima, orgogliosa: “superba”, appunto.
Loro, i genovesi, non ne hanno colpa, in fondo: si sforzano addirittura di apparire diversi, di provocare non la simpatia degli altri ( cosa che in genere li lascia indifferenti) ma quella che loro stessi sono incapaci di provare. Quei pochi che ci riescono hanno un successo straordinario: i Don Gallo, i Grillo, i Crozza, i De Andrè (anche se definire simpatico quest’ultimo richiede non poco sforzo). La convivialità, come il decoro, è assente. Ci si trova tra accoliti reciprocamente diffidenti, piuttosto che tra amici. I regali e gli inviti – orrore! – devono essere ricambiati al più presto.
Il decoro pubblico ha ceduto al degrado sistematico: dai Parchi di Nervi all’Acquasola, alla Villetta Di Negro, ai Giardini di plastica, alle stazioni ferroviarie di Brignole e Principe, eternamente prive del quadro degli arrivi. Da Genova, infatti, si può soltanto partire. Chi passi per l’aeroporto, poi, ha la singolare esperienza di un meraviglioso tableau vivant meccanico, aeronautico presepe che si mette in moto, come i suoi nastri trasportatori, solo in occasione dei rari atterraggi.
Né consola, lì a fianco, la vista inquietante della collina di Erzelli, illuminata a giorno: irraggiungibile sogno tecnologico, simbolo di una modernità non si sa se più temuta o invocata. Smarrito il gusto della generosità e del rischio, Genova si lascia sedurre (e poi abbandonare) da progetti tanto illusori, quanto efficaci come sedativi. Si è sedati dalla chiacchiera pubblica su un da farsi che non si fa mai, se non per accidente. Il raro “nuovo”assume in fretta l’aspetto laido del vecchio. Il quartiere sorto negli anni ’60 intorno a Piccapietra e all’antico ospedale di Pammatone, trasformato in tribunale, ne è la prova. E’ impressionante il richiamo a Staglieno. Nelle “gallerie”, dalle saracinesche abbassate su negozi vuoti, sorgono ogni notte gli accampamenti di cartone dei disperati. Ho visto scene simili a Bombay, negli anni ’70.