L’ingloriosa fine del tentativo, in verità purtroppo un po’ farsesco, di portare alcuni ministeri a Nord, per la precisione a Monza, mette malinconia. Per tre motivi.
Il primo è che non si vede perché non si possano decentrare i ministeri in un’epoca in cui la possiiblità di comunicare a distanza come se si fosse uno di fronte all’altro è praticamente infinita. Non a caso si fanno teleconferenze in grandi aziende, multinazionali, tra ministri di governi europei, statunitensi, ecc. e anche tra sedi distaccate di giornali.
Comunicare, discutere e decidere stando alcuni a Mosca, altri a Tokio e altri ancora a New York e Roma (scritto per carità di patria, perché ormai l’Italia conta sempre meno in Europa e nel mondo) non è più un problema, è ormai un’usanza diffusa.
Il secondo motivo è che se il vice regno del Lombardo Veneto aveva per capitale sia Milano che Venezia, non si vede perché oggi il ruolo di capitale, inteso come centro governativo decisionale, non possa ruotare tra più città, da Palermo a Torino.
Il terzo motivo è che i lombardi, quando si chiamavano ancora longobardi, ebbero come capitale estiva per un certo periodo nel VII secolo proprio Monza ed erano anche re d’Italia prima ancora di mettersi in testa la famosa Corona Ferrea, hanno ricevuto una serie di bidoni e fregature clamorose. Storiche. Che hanno ritardato, tra l’altro, l’unità d’Italia di una decina di secoli.
Le fregature le hanno ricevute tutte dalla Chiesa, o meglio dai papi, pur essendo merito loro se lo Stato del Vaticano ha iniziato a prender forma territoriale fino a diventare, appunto, uno Stato. Nel 728 infatti il sovrano longobardo Liutprando con la famosa “donazione di Sutri” dona ai «beatissimi apostoli Pietro e Paolo», cioè al vescovo di Roma ovvero a papa Gregorio II, le rocche e i castelli laziali di Sutri, Amelia, Bomarzo e Orte, strappate con la guerra assieme ad altri territori ai bizantini. Che alla fine si ridussero ad avere in Italia solo i territori che oggi si chiamano Romagna, nome che a quanto pare deriva dall’aggettivo “romano” che accompagnava il nome dell’impero detto anche bizantino.
Il papa ci prese gusto. Così il suo successore, Gregorio III, con la scusa che S. Pietro era il santo protettore e l’eroe eponimo delle città di Ravenna, Rimini, Fano, Pesaro, Senigallia e Ancona, mette le mani avanti e in una lettera del 739 a Carlo Martello, maestro di Palazzo dei re franchi merovingi, dinastia fondata da re Clodoveo convertito al cattolicesimo, usa l’espressione “populus peculiaris beati Petri”: vale a dire, “popolo peculiare di S. Pietro”.
E siccome il successore di S. Pietro è il papa, ecco che il senso vero di quelle parole è che il papa considera i territori di quelle città come territorio soggetto al papa. Tre anni dopo il fin troppo generoso Liutprando regala al papa, “donazionis titulo”, le città di Vetralla, Palestrina, Ninfa, Norma, Palestrina e Vetralla, più un pezzo di Sabina, dopo averle strappate al ducato di Spoleto, longobardo pure quello. E così, grazie ai regali di Liutprando di terre e città al papa, la Res Publica di S. Pietro dell’VIII secolo non è più solo “patrimonio di S. Pietro”, cioè “patrimonio dei papi”, ma anche una entità politico territoriale autonoma, dotata di un suo governo.
L’appetito, si sa, vien mangiando. E ai papi dopo le donazioni del lombardo, pardon, del longobardo Liutprando gli viene un tale appetito di terre e potere da creare il falso testamento dell’imperatore Costantino, datato 321, nel quale si leggeva che Costantino aveva lasciato in eredità al successore di S. Pietro, all’epoca papa Silvestro I, non solo il palazzo del Laterano, sede dell’imperatore quando passava da Roma, ma anche l’intero impero romano d’Occidente, compresa ovviamente la sua capitale Roma, e qualche diocesi africana o mediorientale.
Per arraffare quanti più territori possibili e allargare quello che ormai era il loro Stato, papa Stefano II si recò in Francia per chiedere l’appoggio di Pipino il Breve, figlio di Carlo Martello, contro i longobardi che definì “genia fetentissima”. In cambio della disponibiltà a invadere l’Italia per battere i longobardi, che puntavano a unificare l’Italia, papa Stefano II tradisce non solo i longobardi della storica donazione, ma anche i merovingi che avevano convertito la Francia al cristianesimo: appoggia infatto il colpo di Stato di Pipino il Breve e nel 751 lo incorona re dei franchi.
Con Carlo Magno, figlio di Pipino il Breve, andrà ancora meglio. Analfabeta com’era Carlo, al papa non fu difficile convincerlo dell’autenticità del testamento taroccato di Costantino. E così si arriva al Sacro Romano Impero, con l’incoronazione per mano del papa in S. Pietro di Carlo Magno, che ricambia imponendo con le armi il cristianesimo a tutta l’Europa con decenni di guerre, stragi e leggi durissime degne dei talebani.
E i longobardi? Drasticamente ridimensionati, confinati di fatto in quella che poi si chiamerà Lombardia. Con l’unità d’Italia rimandata di una decina di secoli, fino all’arrivo dei Savoia…. E la Corona Ferrea di Monza? Sulla testa di Carlo Magno e dei suoi successori in quanto, eccetto una pausa tra l’888 e il 962, oltre che imperatori del Sacro Romano Impero erano anche re d’Italia, finché finirà anche sulla testa di Napoleone.
E dire che un paio di secoli prima la regina longobarda Teodolinda era già cristiana, era già stata regina d’Italia, dal 589 al 616, aveva donato varie terre ai monaci e già fatto costruire il famoso duomo di Monza per conservarvi la Corona Ferrea da lei costruita e inaugurata. Teodolinda l’aveva ricavata da un chiodo della croce di Gesù regalatole da papa Gregorio I. La leggenda dice che si trattava di uno dei chiodi trovati nel 324 a Gerusalemme da Elena, madre di Costantino, l’imperatore che sdoganò il cristianesimo rendendolo religione legittima.
Insomma, peccato! Bossi&C la partita dei ministeri a Monza l’hanno giocata male. E persa malissimo. Non sono stati affatto all’altezza della situazione richiesta dal tirare in ballo la capitale dei re d’Italia longobardi, nonché città della Corona Ferrea e del famoso duomo di Teodolinda. Hanno solo fatto la figura della rana, anzi del rospo che per diventare grande come un toro s’è gonfiato talmente fino a scoppiare…..