Raccontai divertito le “scoperte” di Calogero ad amici e ad amiche, tanto che quell’estate la faccenda delle telefonate diventò un gioco, ci scherzavano su. In seguito però un ex militante di Potere Operaio, Antonio Romito detto Pomito, su pressione del Partito comunista al quale anche lui come Troilo era iscritto, andò da Calogero per rilasciare una ben singolare “testimonianza”: a suo dire, nel 1973 Potere Operaio aveva solo fatto finta di sciogliersi, per poter meglio confluire nelle Brigate Rosse. Le oltre 20 pagine del “memoriale Romito”, come venne pomposamente definito, a me dedicavano un paio di righe: “Il giornalista Pino Nicotri ha nel movimento un luogo particolare”. A parte la stranezza della prosa, la sostanza era vera: ero il presidente dell’intera assemblea dell’ateneo dell’Università di Padova oltre che della facoltà di Fisica dove studiavo, ormai molto fuori corso, ero cioè il presidente assembleare dell’intero movimento studentesco padovano. Movimento studentesco però, cosa ben diversa dal resto.
Calogero, pressato anche lui dal Partito comunista, che allora si apprestava ad appoggiare dall’esterno i governi democristiani lanciando la linea del “compromesso storico”, non seppe resistere alla tentazione e scambiando fischi per fiaschi prese il più colossale granchio della storia giudiziaria italiana del dopoguerra ordinando la retata del 7 aprile contro “i componenti della direzione strategica delle Brigate Rosse, Prima Linea e Autonomia Operaia, nonché autori e responsabili del sequestro e uccisione dell’onorevole Aldo Moro”. Come l’onorevole Gasparri può vedere, il movimento degli studenti e le loro manifestazioni di piazza NON c’entravano un fico secco, checché lui ne straparli. In seguito i capi d’accusa vennero estesi a tutti gli omicidi brigatisti avvenuti a Roma. In cella a regina Coeli lessi allibito che nella ennesima versione del mandato di cattura, sempre più voluminoso, ci contestavano anche “il mancato pagamento del bollo dell’automobile Citroen di colore rosso utilizzata per trasportare il cadavere dell’onorevole Moro”. Le accuse riguardo la direzione strategica una e trina dell’intero terrorismo italiano e il sequestro Moro caddero miseramente per tutti gli arrestati del 7 aprile, che invece furono rinviati a giudizio per la cosiddetta Autonomia Operaia Organizzata, che in realtà era quanto di meno organizzato ci fosse. Alcuni si fecero fino a 7 anni di galera preventiva per poi essere assolti o condannati per cose tutto sommato da poco.
Io dopo 90 giorni ero già fuori, e in seguito al processo venni assolto. Gli altri, ripeto, fecero vari anni di carcere preventivo, alcuni vennero condannati per reati che comunque non avevano a che fare neppure da lontano con il delitto Moro o con altre uccisioni né con le BR né con PL. La mia fortuna fu che, oltre ad essere estraneo al tutto, a L’Espresso c’era chi aveva riconosciuto la voce di Morucci, una voce molto nota anche in vari salotti romani di sinistra, e quindi tutti sapevano bene che io non c’entravo niente. Tant’è che il giornale mi assegnò come difensore il suo avvocato, il grande Adolfo Gatti, e mi pubblicò anche due articoli che dalla galera riuscii a far arrivare alla redazione, suscitando l’arrabbiatura dei magistrati romani che accelerarono così la decisione di cacciarmi dal carcere e di farmi uscire completamente dal caso Moro. Fui infatti rinviato a giudizio solo per il filone Autonomia Operaia, nonostante il pubblico ministero avesse chiesto il mio proscioglimento e nonostante il giudice istruttore si fosse ben guardato dallo scrivere per quali motivi aveva invece deciso di rinviarmi a giudizio. Giudizio a conclusione del quale venni assolto. Il tutto senza avere nessun fastidio nel mio lavoro di giornalista per L’Espresso, Repubblica e il Mattino di Padova. L’unico danno che ebbi fu la rottura decisa dall’allora direttore di Repubblica, il grande Eugenio Scalfari, perché rifiutai il suo diktat di non occuparmi degli altri imputati, che sapevo bene essere innocenti quanto me almeno per le vicende Moro, BR e PL. Purtroppo Scalfari si vendicò del mio rifiuto impedendomi di continuare a scrivere per Repubblica. Fu la prima delle due forti delusioni ricevute dal mio idolo giornalistico.
Tutto ciò premesso, con qualche nostalgia perché all’epoca ero giovane, il problema sul quale Gasparri dovrebbe meditare anziché straparlare è che Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’Interno, si è in seguito pentito di avere represso nel 1977, “anche inviando in piazza i cingolati dei carabinieri”, il movimento e i suoi gruppetti extraparlamentari perché “così facendo li spinsi tutti verso il terrorismo vero delle Brigate Rosse”. Sulla coscienza di Cossiga pesava anche il sapere che il suo compagno di partito Aldo Moro era rimasto vittima proprio del predominio brigatista sul resto del movinento extraparlamentare, predominio realizzato proprio grazie alla repressione di piazza ordinata da Cossiga nel ’77, in particolare durante in convegno nazionale di tre giorni realizzato all’Università di Bologna da tutta l’area extraparlamentare per tentare di capire cosa fare e come organizzarsi senza cadere nella trappola del terrosirmo di massa.
L’onorevole Gasparri non si rende conto che il suo invocare “un nuovo 7 aprile” significa – come dicevamo all’inizio – solo invocare una nuova stagione brigatista. Vale a dire, sigle a parte, una nuova stagione di terrorismo e di sangue. Prima se ne rende conto meglio è anche per lui: si eviterebbe infatti i rimorsi che hanno roso l’animo e incupito Cossiga per il resto della propria vita, dall’uccisione di Moro in poi.