Pino Nicotri

“Gasparri stai attento, così favorisci il terrorismo”: la replica di Pino Nicotri, fra i 12 arrestati del 7 aprile 1979

L’onorevole Gasparri non sa di cosa parla, perciò invoca “arresti preventivi e un nuovo 7 aprile” straparlando non solo riguardo l’anno degli arresti, avvenuti nel ’79 e non nel ’78 come ha detto l’ex ministro berluscone, ma anche riguardo la sostanza. Andiamo però per ordine, spiegando prima di tutto cos’è stata l’ondata di arresti del 7 aprile 1979, passato alla storia giudiziaria e giornalistica come “il blitz” giudiziario per antonomasia. E aggiungendo subito che il ministro degli Interni di allora, Francesco Cossiga, ebbe poi modo di dichiarare pubblicamente d’essersi pentito di avere mandato i carabinieri e la polizia a reprimere sempre, soprattutto nel ’77, le manifestazioni di piazza, all’epoca spesso molto più violente di quelle che hanno sconvolto Roma nei giorni scorsi. Cossiga se ne pentì perché riconobbe che proprio quella repressione spinse troppi giovani verso il terrorismo brigatista, che nel ’78 tra l’altro rapì e uccise lo statista e uomo di governo democristiano Aldo Moro. Non so se l’onorevole Gasparri se ne renda conto, ma la sua invocazione equivale quindi a invocare la rinascita del terrrorismo.

Dunque: quel giorno il pubblico ministero Pietro Calogero fece arrestare una dozzina di personaggi, me compreso, con in testa il professore universitario di Dottrina dello Stato Antonio Negri, detto Toni, e altri leader o supposti tali di spezzoni del movimento extraparlamentare di sinistra chiamato Autonomia Operaia, come per esempio gli allora famosissimi Oreste Scalzone e Franco Piperno, ex leader con Negri del disciolto gruppo di Potere Operaio, ma compresi assistenti universitari di Negri che non c’entravano nulla di nulla se non solo con i suoi studi e libri, come Luciano Ferrari Bravo e Alisi Del Re. A quell’epoca imperversavano le Brigate Rosse (BR) e Prima Linea (PL), dedite a quella che loro chiamavano lotta armata e che altri chiamavano terrorismo. Le vittime uccise dalle BR e da PL erano purtroppo sempre più numerose. Tra gli altri, nel ’78 era stato rapito e ucciso l’onorevole Aldo Moro, con il massacro della sua scorta. Per cercare di rintracciare i responsabili del sequestro e dell’uccisione di Moro e della sua scorta il ministero dell’Interno decise di far trasmettere alla Rai e alle radio e tv private le registrazioni delle intercettazioni di alcune telefonate di brigatisti alla famiglia Moro fatte per tentare di dettare le condizioni per la liberazione del rapito. Una delle telefonate mandate in onda era invece al professor Tritto, un amico di Moro, e venne fatta per dirgli dove si trovata il cadavere di Moro, cioè in una Renault rossa parcheggiata in via Caetani, a Roma.

Fu così che nell’estate del ’78 un assistente di matematica alla facoltà di Ingegneria di Padova, Renato Troilo, ex di Potere Operaio passato al Partito comunista, si recò in questura per dire che la voce della telefonata a Tritto gli pareva fosse la mia. La questura trasmise la “testimonianza”, definendola di “fonte solitamente attendibile”, cioè a dire come se Troilo fosse un informatore abituale della polizia, sia alla procura della Repubblica di Padova che a quella di Roma, competente per il delitto Moro. La procura di Roma, ben sapendo che quella voce non era mia ma del brigatista Valerio Morucci, cestinò l’informazione. Calogero invece la prese sul serio, tanto che il giornale il Gazzettino segnalò, prima dell’agosto ’78, un suo viaggio a Roma “perché pare ci siano agganci padovani con il delitto Moro”. All’epoca ero collaboratore fisso de L’Espresso, corrispondente dal veneto di Repubblica e caposervizio del neonato Mattino di Padova, che avevo contribuito a far nascere su richiesta di Giorgio Mondadori, che quando mi chiese di darmi da fare era il presidente del consiglio di amministrazione di Repubblica. La notizia del Gazzettino mi incuriosì, e informandomi venni a sapere che ero sospettato di essere un telefonista dell Br del caso Moro! In seguito venni a sapere anche che Negri era pure lui sospettato di essere stato un telefonista brigatista del caso Moro, su “testimonianza” del professore di scuola media Severino Galante, solo che il brigatista vero di quelle telefonate e di tutto il resto si chiamava ed era Mario Moretti, non Toni Negri.

Un corteo di autonomi negli anni 70

Raccontai divertito le “scoperte” di Calogero ad amici e ad amiche, tanto che quell’estate la faccenda delle telefonate diventò un gioco, ci scherzavano su. In seguito però un ex militante di Potere Operaio, Antonio Romito detto Pomito, su pressione del Partito comunista al quale anche lui come Troilo era iscritto, andò da Calogero per rilasciare una ben singolare “testimonianza”: a suo dire, nel 1973 Potere Operaio aveva solo fatto finta di sciogliersi, per poter meglio confluire nelle Brigate Rosse. Le oltre 20 pagine del “memoriale Romito”, come venne pomposamente definito, a me dedicavano un paio di righe: “Il giornalista Pino Nicotri ha nel movimento un luogo particolare”. A parte la stranezza della prosa, la sostanza era vera: ero il presidente dell’intera assemblea dell’ateneo dell’Università di Padova oltre che della facoltà di Fisica dove studiavo, ormai molto fuori corso, ero cioè il presidente assembleare dell’intero movimento studentesco padovano. Movimento studentesco però, cosa ben diversa dal resto.

Calogero, pressato anche lui dal Partito comunista, che allora si apprestava ad appoggiare dall’esterno i governi democristiani lanciando la linea del “compromesso storico”, non seppe resistere alla tentazione e scambiando fischi per fiaschi prese il più colossale granchio della storia giudiziaria italiana del dopoguerra ordinando la retata del 7 aprile contro “i componenti della direzione strategica delle Brigate Rosse, Prima Linea e Autonomia Operaia, nonché autori e responsabili del sequestro e uccisione dell’onorevole Aldo Moro”. Come l’onorevole Gasparri può vedere, il movimento degli studenti e le loro manifestazioni di piazza NON c’entravano un fico secco, checché lui ne straparli. In seguito i capi d’accusa vennero estesi a tutti gli omicidi brigatisti avvenuti a Roma. In cella a regina Coeli lessi allibito che nella ennesima versione del mandato di cattura, sempre più voluminoso, ci contestavano anche “il mancato pagamento del bollo dell’automobile Citroen di colore rosso utilizzata per trasportare il cadavere dell’onorevole Moro”. Le accuse riguardo la direzione strategica una e trina dell’intero terrorismo italiano e il sequestro Moro caddero miseramente per tutti gli arrestati del 7 aprile, che invece furono rinviati a giudizio per la cosiddetta Autonomia Operaia Organizzata, che in realtà era quanto di meno organizzato ci fosse. Alcuni si fecero fino a 7 anni di galera preventiva per poi essere assolti o condannati per cose tutto sommato da poco.

Io dopo 90 giorni ero già fuori, e in seguito al processo venni assolto. Gli altri, ripeto, fecero vari anni di carcere preventivo, alcuni vennero condannati per reati che comunque non avevano a che fare neppure da lontano con il delitto Moro o con altre uccisioni né con le BR né con PL. La mia fortuna fu che, oltre ad essere estraneo al tutto, a L’Espresso c’era chi aveva riconosciuto la voce di Morucci, una voce molto nota anche in vari salotti romani di sinistra, e quindi tutti sapevano bene che io non c’entravo niente. Tant’è che il giornale mi assegnò come difensore il suo avvocato, il grande Adolfo Gatti, e mi pubblicò anche due articoli che dalla galera riuscii a far arrivare alla redazione, suscitando l’arrabbiatura dei magistrati romani che accelerarono così la decisione di cacciarmi dal carcere e di farmi uscire completamente dal caso Moro. Fui infatti rinviato a giudizio solo per il filone Autonomia Operaia, nonostante il pubblico ministero avesse chiesto il mio proscioglimento e nonostante il giudice istruttore si fosse ben guardato dallo scrivere per quali motivi aveva invece deciso di rinviarmi a giudizio. Giudizio a conclusione del quale venni assolto. Il tutto senza avere nessun fastidio nel mio lavoro di giornalista per L’Espresso, Repubblica e il Mattino di Padova. L’unico danno che ebbi fu la rottura decisa dall’allora direttore di Repubblica, il grande Eugenio Scalfari, perché rifiutai il suo diktat di non occuparmi degli altri imputati, che sapevo bene essere innocenti quanto me almeno per le vicende Moro, BR e PL. Purtroppo Scalfari si vendicò del mio rifiuto impedendomi di continuare a scrivere per Repubblica. Fu la prima delle due forti delusioni ricevute dal mio idolo giornalistico.

Tutto ciò premesso, con qualche nostalgia perché all’epoca ero giovane, il problema sul quale Gasparri dovrebbe meditare anziché straparlare è che Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’Interno, si è in seguito pentito di avere represso nel 1977, “anche inviando in piazza i cingolati dei carabinieri”, il movimento e i suoi gruppetti extraparlamentari perché “così facendo li spinsi tutti verso il terrorismo vero delle Brigate Rosse”. Sulla coscienza di Cossiga pesava anche il sapere che il suo compagno di partito Aldo Moro era rimasto vittima proprio del predominio brigatista sul resto del movinento extraparlamentare, predominio realizzato proprio grazie alla repressione di piazza ordinata da Cossiga nel ’77, in particolare durante in convegno nazionale di tre giorni realizzato all’Università di Bologna da tutta l’area extraparlamentare per tentare di capire cosa fare e come organizzarsi senza cadere nella trappola del terrosirmo di massa.

L’onorevole Gasparri non si rende conto che il suo invocare “un nuovo 7 aprile” significa – come dicevamo all’inizio – solo invocare una nuova stagione brigatista. Vale a dire, sigle a parte, una nuova stagione di terrorismo e di sangue. Prima se ne rende conto meglio è anche per lui: si eviterebbe infatti i rimorsi che hanno roso l’animo e incupito Cossiga per il resto della propria vita, dall’uccisione di Moro in poi.

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