ROMA – Per tenere in scena il mistero Orlandi, chi ne trae in qualche modo profitto e un po’ di fama è ormai costretto a raschiare il fondo del barile ricorrendo a falsi dai piedi d’argilla. Prendiamo per esempio due casi, quello dell’ex carabiniere Antonio Goglia, del quale su Blitz abbiamo sempre fatto pubblicare tutto, e del fotografo romano Marco Fassoni Accetti, l’asserito organizzatore del “sequestro consenziente” di Emanuela Orlandi.
Goglia nel suo ultimo articolo, comparso su Blitz lo scorso 17 gennaio, si diffonde ulteriormente nella sua pista internazionale, che ormai comprende perfino le Brigate Rosse, e nell’origine brasiliana del “rapimento”, affermando quanto segue:
“Ecco, dunque, come le Brigate Rosse incarcerate e i detenuti politici brasiliani avevano e condividevano la comune esigenza di veder rispettati i propri diritti umani e il loro diritto ad avere un giusto processo, un’ esigenza… ed un progetto… di cui poté farsi portavoce monsignor Pietro Vergari che, come già anticipato più sopra, può aver mantenuto, verosimilmente, i contatti tra i dirigenti del crimine organizzato, detenuti in ambiente carcerario, e l’esterno.
Il direttivo dell’ Accademia Cultorum Martyrum, di cui nel 1983 mons. Pietro Vergari era il cappellano, appare in questa prospettiva sempre più come una sorta di centrale operativa di rivendicazione dei diritti dei prigionieri politici italiani e brasiliani soprattutto denotando tra i componenti dello stesso i nomi di Francesco Piccioni e Giovanni Marini. Solo omonimi degli esponenti dell’eversione e dell’anarchismo?
La sua pista brasiliana Goglia l’aveva già esposta su Blitz in particolare nei seguenti altri tre articoli:
– https://www.blitzquotidiano.it/cronaca-italia/emanuela-orlandi-antonio-goglia-rapimento-1382866/
– https://www.blitzquotidiano.it/cronaca-italia/emanuela-orlandi-antonio-goglia-e-morta-1339975/
– https://www.blitzquotidiano.it/cronaca-italia/emanuela-orlandi-fu-rapita-da-tedeschi-1457060/
Come si legge, la pista Goglia si basa sempre e comunque sull’affermazione che don Pietro Vergari, il suo malgrado famoso rettore della basilica di S. Apollinare, sia stato cappellano dell’Accademia Cultorum Martyrum già nell’’83, anno della scomparsa di Emanuela. Purtroppo però don Vergari di quell’Accademia pontificia, una delle 12 che hanno il compito di promuovere il culto dei martiri e l’interesse per le catacombe cristiane, è stato solo il “sacerdos” per le celebrazioni liturgiche del biennio 2000-2001. Notizia della quale si trova traccia da anni perfino nel suo sito, ma che può essere confermata senza problemi telefonando o scrivendo a quell’Accademia, la cui storia è facilmente reperibile a partire da questi siti:
– http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_academies/cult-martyrum/index_it.htm
– http://it.wikipedia.org/wiki/Pontificia_accademia_Cultorum_martyrum
Questa fissazione su don Vergari “cappellano dell’Accademia nell’’83” fa il paio con la fissazione che lo ha voluto per anni e anni anche “cappellano del carcere di Regina Coeli già dall’83” se non prima. Una definizione, questa di cappellano del carcere romano già nei primi anni ’80, che è servita per legarlo al carro di Enrico De Pedis, eletto a furor di “supertestimoni” boss della cosiddetta banda della Magliana e rapitore della Orlandi, De Pedis infatti è stato detenuto anche a Regina Coeli e dopo essere stato ucciso, nel ’90, è stato sepolto prima al Verano nella tomba di famiglia della moglie e infine per decisione di costei nei sotterranei della basilica della quale don Vergari era diventato rettore. Basta andare a informarsi a Regina Coeli per scoprire però un paio di cose:
– don Vergari NON ne è mai stato il cappellano. Semplicemente il venerdì aiutava il cappellano, quello vero, nei rapporti con i detenuti;
– don Vergari e il detenuto De Pedis si sono conosciuti per caso solo qualche anno DOPO la scomparsa di Emanuela. Aveva chiesto di poter parlare con lui un altro detenuto, con un cognome simile a quello di De Pedis, ma per errore i secondini gli portarono a colloquio il “boss della Magliana”.
Veniamo ora a Marco Fassoni Accetti, che con una querela al sottoscritto presentata ai carabinieri il 17 febbraio, con una marea di interventi fatti scrivere a sue amiche su Blitz, su Facebook e su sit Internet sta cercando convincere i lettori che non è vero quanto ho scritto in questo articolo su Blitz il 10 febbraio. Vale a dire, che lui il 21 dicembre 1983 – quando venne fermato vicino la pineta di Ostia e dopo poche ore arrestato per avere investito e ucciso il 13enne Josè Garramon – non aveva la più pallida idea che lì vicino abitasse il magistrato Severino Santiapichi. E che di conseguenza non può essere vero né che stava conducendo una “operazione” contro di lui per conto di una “fazione vaticana” né tutto il resto che ha raccontato ai magistrati sul suo asserito ruolo nell’organizzare la scomparsa della Orlandi per favorire tale “fazione”. Lo ha testimoniato tra l’altro la donna che venne fermata con lui, Patrizia D. B., raccontando ai magistrati che si occupano del caso Orlandi che essendo lei segnalata come estremista di sinistra andò a interrogarli il magistrato Domenico Sica, che allora si occupava di terrorismo rosso:
“Che li vicino abitasse Santiapichi lo apprendemmo da Sica, né io né Fassoni Accetti ne sapevamo nulla”.
Dichiarazione che Patrizia D. B. ha fatto, ripetuto e molto arricchita di particolari anche tra i commenti al citato articolo di Blitz dopo una serie di telefonate di Fassoni Accetti che insisteva a farle pressione perché negasse tutto. Telefonate della quali la donna ha già riferito ai magistrati.
Per sostenere la propria tesi sulla “operazione “ contro Santiapichi il “supertestimone” Fassoni Accetti ha, tra l’altro, rilasciato al Corriere della Sera una serie di dichiarazioni utilizzate per un articolo nel quale si legge:
“Domande, suggestioni, misteri. Come quello della morte di Josè Garramon, 12 anni, figlio di un funzionario uruguayano dell’Onu, che il 20 dicembre 1983 fu ucciso da un furgone nella pineta di Castel Porziano. Al volante c’era proprio Fassoni Accetti, che si allontanò e fu rintracciato dalla scorta di Severino Santiapichi, il magistrato che si occupava dell’attentato al Papa e aveva la villa poco distante. Il regista finì in carcere per un anno. Nei giorni scorsi, al Corriere, ha dichiarato: «Era buio, c’erano delle ombre. Quel bambino mi fu gettato sotto la macchina, fu un incidente provocato”.
Il problema però è che, come si legge nella relazione che i carabinieri inviarono ai magistrati, la pattuglia che fermò Fassoni Accetti era composta dai militari Giovanni De Mattia, Francesco Buoninconti e Carmine Pellegrino. I quali NON erano neppure per scherzo “la scorta di Severino Santiapichi” nonostante Sica lo avesse detto ai due fermati per vedere le loro reazioni. Era una qualunque pattuglia allertata dal locale comando dell’Arma dopo una telefonata dall’ospedale di Ostia che segnalava l’arrivo del cadavere di un bambino, Josè Garramon, chiaramente morto perché investito da un automezzo.
Ma se quei tre carabinieri NON erano la scorta di Santiapichi, è chiaro che Fassoni Accetti al Corriere della Sera può aver detto invece che lo erano solo esclusivamente per averlo sentito dire da Sica quel 21 dicembre.