Egregio onorevole Veltroni,
le scrivo in quanto giornalista e autore di due libri sul cosiddetto “rapimento” di Emanuela Orlandi e di uno, recentissimo, sulla Banda della Magliana intitolato “Cronaca criminale”. Mi considero perciò titolato a rispondere alla sua sbalorditiva lettera pubblicata su Repubblica il 7 ottobre contro la sepoltura del “boss della banda della Magliana” Enrico De Pedis nella basilica romana di S. Apollinare. Il caso vuole che “Cronaca criminale” faccia parlare per la prima volta, e per varie pagine, la signora Carla vedova De Pedis, le cui parole già da sole contengono la demolizione di quanto da lei scritto su Repubblica.
Come prima osservazione c’è da porle una domanda: perché definisce De Pedis “un boss” di quella banda? In base a quali sentenze?
La risposta purtroppo è semplice e sconfortante: lei, onorevole Veltroni, parla basandosi non su sentenze, ma su affermazioni fatte da pentiti, più volte colti in fallo come mendaci. Uno di loro, Vittorio Carnovale, è stato addirittura condannato per calunnia e gli altri, da Fulvio Lucioli ad Antonio Mancini, demoliti dai magistrati della Cassazione. Le loro affermazioni sono state però trasformate, nonostante tutto, in Verità grazie a inchieste giornalistiche e programmi della Rai più attenti a fare a qualunque costo rumore che a fare informazione. Mancini e i suoi imitatori sono arrivati a “rivelare” in tribunale che “la pistola usata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli venne affidata subito dopo il delitto a De Pedis”. Peccato che De Pedis quando veniva ucciso Pecorelli, marzo 1978, fosse chiuso in carcere e ci rimanesse ancora fino all’anno successivo, motivo per cui la bugia di Mancini&C è risultata clamorosa. Peccato anche che tutte le ormai famose accuse di omicidi e rapimenti siano state lanciate quando De Pedis era passato ormai da tempo a miglior vita e quindi impossibilitato a difendersi. La famosa frase “Vile, tu uccidi un uomo morto” dovrebbe essere un ammonimento per tutti. E invece….
Onorevole Veltroni, quello che lei chiama “boss della banda della Magliana”, ucciso nel febbraio 1990, non era certo uno stinco di santo, ma è morto pressoché incensurato. E con un regolare passaporto in tasca. Come unica condanna De Pedis ha avuto quella per una rapina compiuta da giovanissimo, quando la banda della Maglina non esisteva neppure nella più fervida fantasia di romazieri e giallisti. Dopodiché De Pedis è stato sempre assolto da tutte le altre accuse, perfino da quella di avere fatto parte della banda della Magliana e non come boss, ma come semplice associato a delinquere. Ripeto: assolto. E con formula piena. Non miracolato da scadenze termini, prescrizioni o leggi ad personam, bensì assolto. Anche le accuse di cui lei si è fatto incautamente latore sono state lanciate solo dopo la morte del cosiddetto “boss” e non sono mai state suffragate da prove né tanto meno da sentenze.
Come racconto nel mio libro “Cronaca criminale”, a me è bastato un sopralluogo in via di Villa Pepoli per appurare che il pentito Maurizio Abbatino dice il falso per esempio riguardo l’uccisione del “cravattaro” Domenico “Memmo” Balducci, strozzino d’alto bordo. E’ la stessa scena del delitto a dimostrare che Abbatino dice il falso, purtroppo preso per oro colato dalla tv. Per quanto riguarda l’accusa lanciata da Abatino che tra coloro che colpirono a morte Balducci c’era De Pedis, a dimostrarne la falsità è il fatto che in quei giorni “il boss della Magliana” non era a Roma: stava con la sua futura consorte, Carla, in albergo prima a Pescara e poi alle isole Tremiti. Un altro accusato da Abbatino per quel delitto s’è scoperto che non era neppure in Italia. Tutto ciò tralasciando che gli stessi magistrati inquirenti ripetono che non di Banda della Magliana bisogna parlare, bensì di malavita romana, visto che questa non ha mai avuto una “cupola” con epicentro né alla Magliana né altrove.