E fu subito scontro.
Legge elettorale, doppio turno (vecchio cavallo di battaglia dei dalemiani) e riforma istituzionale (Senato delle Autonomie), il tutto condito in salsa berlusconiana, attizza lo scontro tra renziani ed apparato del PD. E con insolita rapidità, a soli 43 giorni dalle primarie, Gianni Cuperlo, eletto Presidente del PD, si dimette nel gennaio 2014 per i contrasti con il neo-segretario-sindaco con la seguente lettera:
«Caro Segretario,
dal primo minuto successivo alle primarie ho detto due cose: che quel risultato, così netto nelle sue dimensioni e nel messaggio, andava colto e rispettato, e che da parte mia vi sarebbe stato un atteggiamento leale e collaborativo senza venir meno alla chiarezza di posizioni e principi che, assieme a tante e tanti, abbiamo messo a base della nostra proposta congressuale. Ho accettato la presidenza dell’Assemblea nazionale con questo spirito e ho cercato di comportarmi in modo conseguente. Prendendo parola e posizione quando mi è sembrato necessario, ma sempre nel rispetto degli altri a cominciare da chi si è assunto l’onere e la responsabilità di guidare questa nuova fase. Nella direzione di ieri sono intervenuto sul merito delle riforme e sul metodo che abbiamo seguito. Ho espresso apprezzamento per l’accelerazione che hai impresso al confronto e condiviso il traguardo di una riforma decisiva per la tenuta del nostro assetto democratico e istituzionale. Non c’era alcun pregiudizio verso il lavoro che hai svolto nei giorni e nelle settimane passate. Lavoro utile e prezioso, non per una parte ma per il Paese tutto. Ho anche manifestato alcuni dubbi – insisto, di merito – sulla proposta di nuova legge elettorale.In particolare gli effetti di una soglia troppo bassa – il 35 per cento – per lo scatto di un premio di maggioranza. Di una soglia troppo alta – l’8 per cento – per le forze non coalizzate e di un limite serio nel non consentire ancora una volta ai cittadini la scelta diretta del loro rappresentante. Dubbi che, per altro, ritrovo autorevolmente illustrati stamane sulle pagine dei principali quotidiani da personalità e studiosi ben più autorevoli di me.
Infine ho espresso una valutazione politica sul metodo seguito nella costruzione della proposta e ho chiuso con un richiamo a non considerare la discussione tra noi come una parentesi irrilevante ai fini di un miglioramento delle soluzioni.Nella tua replica ho ascoltato la conferma che le riforme in discussione rappresentano un pacchetto chiuso e dunque – traduco io – non emendabile o migliorabile pena l’arresto del processo, almeno nelle modalità che ha assunto. Sino ad un riferimento diretto a me e al fatto che avrei sollevato strumentalmente il tema delle preferenze con tutta la scarsa credibilità di uno che quell’argomento si è ben guardato dal porre all’atto del suo (cioè mio) ingresso alla Camera in un listino bloccato. È vero. Per il poco che possano valere dei cenni personali, sono entrato per la prima volta in Parlamento nel giugno del 2006 subentrando al collega Budin che si era dimesso. Vi sono rientrato da “nominato” nel 2008 e nuovamente nel listino da te rammentato a febbraio di un anno fa. La mia intera esperienza parlamentare è coincisa con la peggiore legge elettorale mai concepita nella storia repubblicana.
Sarebbe per altro noioso per te che io ti raccontassi quali siano stati la mia esperienza e il mio impegno politico prima di questa parentesi istituzionale. Però la conosco io, e tanto può bastare. Quanto al consenso non so dire se in una competizione con preferenze ne avrei raccolte molte o poche. So che alcuni mesi fa, usando qualche violenza al mio carattere, mi sono candidato alla guida del nostro partito. Ho perso quella sfida raccogliendo però attorno a quella nostra proposta un volume di consensi che io considero non banali.
Comunque non è questo il punto. Il punto è che ancora ieri, e non per la prima volta, tu hai risposto a delle obiezioni politiche e di merito con un attacco di tipo personale. Il punto è che ritengo non possano funzionare un organismo dirigente e una comunità politica – e un partito è in primo luogo una comunità politica – dove le riunioni si convocano, si svolgono, ma dove lo spazio e l’espressione delle differenze finiscono in una irritazione della maggioranza e, con qualche frequenza, in una conseguente delegittimazione dell’interlocutore. Non credo sia un metodo giusto, saggio, adeguato alle ambizioni di un partito come il Pd e alle speranze che questa nuova stagione, e il tuo personale successo, hanno attivato. Tra i moltissimi difetti che mi riconosco non credo di avere mai sofferto dell’ansia di una collocazione. Ieri sera, a fine dei nostri lavori, esponenti della tua maggioranza hanno chiesto le mie dimissioni da presidente per il “livore” che avrei manifestato nel corso del mio intervento. Leggo da un dizionario on line che la definizione del termine corrisponde più o meno a “sentimento di invidia e rancore”.
Ecco, caro Segretario, non è così. Non nutro alcun sentimento di invidia e tanto meno di rancore. Non ne avrei ragione dal momento che la politica, quando vissuta con passione, ti insegna a misurarti con la forza dei processi. E io questo realismo lo considero un segno della maturità.
Non mi dimetto, quindi, per “livore”. E neppure per l’assenza di un cenno di solidarietà di fronte alla richiesta di dimissioni avanzata con motivazioni alquanto discutibili. Non mi dimetto neppure per una battuta scivolata via o il gusto gratuito di un’offesa. Anche se alle spalle abbiamo anni durante i quali il linguaggio della politica si è spinto fin dove mai avrebbe dovuto spingersi, e tutto era sempre e solo rubricato come “una battuta”.Mi dimetto perché sono colpito e allarmato da una concezione del partito e del confronto al suo interno che non può piegare verso l’omologazione, di linguaggio e pensiero.
Mi dimetto perché voglio bene al Pd e voglio impegnarmi a rafforzare al suo interno idee e valori di quella sinistra ripensata senza la quale questo partito semplicemente cesserebbe di essere. Mi dimetto perché voglio avere la libertà di dire sempre quello che penso. Voglio poter applaudire, criticare, dissentire, senza che ciò appaia a nessuno come un abuso della carica che per qualche settimana ho cercato di ricoprire al meglio delle mie capacità.
Auguro buon lavoro a te e a tutti noi.
Gianni».Mentre la politica politiçien italiana annaspa, finisce qui, con questa lettera, la nostra cronistoria. Sarà scontro insanabile nel PD ovvero normalizzazione del partito fluido in mano ad un “Uomo solo al comando”? In definitiva, ai partiti di massa si è sostituito un partito “liquido”. L’assetto pseudo-bipolare ha restituito l’ingovernabilità di sempre, che dunque non è da imputare al sistema elettorale, bensì alla mancanza di identità delle componenti politiche. L’amministrazione della cosa pubblica, la cui evidenza massima è quella comunale, è semplicemente trampolino di potere. Ecco il termine “sindaco fuori dal Comune”. Tutto ben diverso dall’esempio di sindaco che vorremmo.
La storia continua con la resistibile ascesa di Matteo Renzi che non si ferma ai diktat della Direzione del PD. Vuole di più e alla metà di febbraio 2014 dà il benservito a Letta con un twitt che recita “sta sereno” ma che si può anche leggere “stasera ti meno”. La spallata, malgrado il tentativo di recupero del presidente Letta, ha il suo effetto devastante con le dimissioni del Governo. Al momento in cui le rotative danno alla luce questo volume, il governo Renzi è in carica e ci si augura che qualcuno indichi con il GPS ai giovani navigatori-ministri il relativo indirizzo (anche politico).
Sembra che ci abbia letto nel pensiero il giovane primo ministro: uscito dalla studio del Capo dello Stato, in sintesi ha detto che non bisogna stupirsi se un sindaco ascenda al governo, anzi nel futuro sarà prassi normale. Egli è mosso, o sospinto letteralmente, dai suoi cittadini, delle cui istanze è portavoce perché nessuno più di un sindaco conosce i bisogni della gente.
