Ustica e Bologna 40 anni dopo le stragi, una nuova “verità”. Che purtroppo non convince molto.
“Nessuna bomba, nessun missile: è la sfiammata di un aereo da caccia sulla cabina di pilotaggio del Dc9 ad aver inferto il primo colpo mortale all’aereo, togliendo immediatamente la vita ai due piloti”.
Le fotografie dei vetri della cabina, dissolti e accartocciati dalle bruciature, ci sono, anche se nessuno le ha mai volute vedere: Cucchiarelli le pubblica. Ed è già sotto attacco: “I cretini di Stato sono al lavoro”, racconta sorridendo”.
Questa è una delle frasi elogiative di Monica Mistretta nell’intervista a Paolo Cucchiarelli. Tema il suo nuovo voluminoso libro dal titolo impegnativo e ambizioso “Ustica & Bologna. Attacco all’Italia”.
Intervista realizzata per i siti di Senza Bavaglio e Critica Liberale, il primo diretto da Massimo Alberizzi e il secondo da Enzo Marzo, entrambi ex giornalisti di prima fila del Corriere della Sera.
A dire dell’intervistatrice, sia per il DC9 partito da Bologna, diretto a Palermo e abbattuto la sera del 27 giugno 1980 sopra il braccio di mare compreso tra le isole Ponza e Ustica. Sia per la strage della stazione di Bologna dell’agosto 1980 “le prove raccolte, pubblicate puntigliosamente nelle oltre 400 pagine, inchiodano il lettore a una verità inedita”.
Verità annunciata già nel sommario.
“L’aereo dell’Itavia (abbattuto sopra Ustica) trasportava due barre di uranio e per questo è stato tirato giù. Le fotografie dei vetri della cabina, dissolti e accartocciati dalle bruciature, mostrano chiaramente che la parte anteriore è stata carbonizzata”.
Beh, se la verità inedita per la tragedia del DC9 di Ustica si basa sulla “sfiammata” del motore di un jet militare – per l’esattezza un Mig 21 – che col suo calore avrebbe fuso i vetri della cabina di pilotaggio, ucciso sul colpo i due piloti e carbonizzato la parte anteriore del velivolo, “i cretini di Stato” non hanno neppure bisogno di mettersi al lavoro. Possono dormire sonni tranquilli.
Il problema infatti è che il vetro per cominciare a deformarsi in superficie per effetto del calore ha bisogno di una temperatura tra i 700 e gli 800 gradi, mentre per una deformazione accentuata seguita dalla fusione ha bisogno di 900-950 gradi. Stiamo parlando di vetro comune, da bottiglia o da finestra.
Ovviamente il vetro per le cabine degli aerei ha caratteristiche di maggiore sicurezza. Se non altro perché deve resistere alle temperature molto fredde, anche 30-40 gradi sotto zero, delle quote di navigazione. E al passaggio alle temperature spesso molto calde nei luoghi di atterraggio, motivo per cui si deforma e fonde a temperature superiori a quelle del vetro comune.
Il gas di scarico di un motore a reazione di norma NON raggiunge la temperatura minima – tra i 700 e gli 800 gradi – necessaria per iniziare a deformare la superficie del vetro comune. La temperatura della massa di gas di scarico infatti è tra i 500 e i 600 gradi. Ma ci sono aerei, specie quelli con il postbruciatore, con il gas di scarico che può raggiungere anche i mille gradi all’ugello d’uscita. Raffreddandosi poi velocemente una volta uscito e sempre di più man mano che si allontana dal jet.
Il caso impossibile
Ma è assolutamente impossibile che un aereo – fosse anche un Mig 21 – possa piazzarsi col retro della fusoliera quasi a contatto con la cabina di un altro velivolo in modo da scaricarle addosso il gas di scarico a temperatura ancora elevata e fonderle così i vetri. Che oltretutto, ripetiamo, NON sono vetri del tipo comune.
Nel caso che un jet militare si piazzi a poca distanza davanti a un altro aereo, di linea o non di linea, e cominci a rallentare per potersi far raggiungere pian piano dal velivolo da “sfiammare”, è assurdo pensare che i piloti di quest’ultimo velivolo dormano o si limitino a guardare anziché reagire allontanandosi. Con una virata o scendendo di quota.
A voler proprio essere condiscendenti e benevoli con lo scenario assurdo dipinto dal libro “Ustica & Bologna” e ipotizzare quindi un contatto ravvicinato tra la cabina del DC9 e l’ugello di scarico del Mig 21, per effetto del fortissimo sbalzo di temperatura i vetri della cabina andrebbero probabilmente in frantumi molto prima di poter cominciare anche solo a deformarsi.
L’aereo della “sfiammata” viene individuato come un caccia MIG21. All’epoca gioiello dell’aeronauta sovietica prodotto dalla società Mikoyan Gurevich dalle cui iniziali viene il nome MIG. Su che che base viene individuato? Lo si legge nell’intervista.
“Sicuramente, un Mig viene visto da testimoni che osservano un aereo con la punta mozza e un pungiglione. Quindi, inequivocabilmente un Mig 21”.
Premesso che il pungiglione è un modernissimo lungo tubo di Pitot, strumento inventato nel 1732 dal fisico francese Henri Pitot utilizzato per misurare la forte velocità di un fluido, principalmente un gas. È impossibile che un osservatore da terra possa distinguerlo in un aereo che vola a qualche chilometro di altezza da Ustica. E in ogni caso: perché un MIG 21 e non un MIG dei modelli tra il 15 e il 20, che hanno tutti “la punta mozza” e alcuni anche “il pungiglione”? Mistero.
L’ex ufficiale dell’aeronautica non risponde
Ho consultato un ex ufficiale dell’aeronautica militare che a suo tempo ha ampiamente seguito il caso, indagini giudiziarie comprese. Ma è vincolato al segreto, perciò alle mie domande non risponde. Però a leggergli i passi della “sfiammata” prima pensa che io lo stia prendendo in giro, poi sbalordisce e ride di gusto scuotendo la testa. Non c’è bisogno di parole.
Basterebbero queste osservazioni per cestinare il libro ed evitare di continuare a occuparsene. Ma c’è dell’altro, che vale la pena rilevare. Spiega infatti Cucchiarelli a garanzia del contenuto di Ustica & Bologna:
“Io ho semplicemente seguito le carte dell’inchiesta Priore. La più lunga e impegnativa indagine giudiziaria della storia della magistratura italiana”.
Ma il motivo della lunghezza record dell’inchiesta del magistrato Rosario Priore è stato dovuto soprattutto al grande lavoro svolto per una notizia falsa. Un maresciallo dell’aeronautica militare controllore di volo all’aeroporto di Villafranca Veronese passato all’aviazione civile un bel giorno si recò da Priore. Per dirgli che la sera di quel 27 giugno aveva visto decollare da Villafranca “due arei militari statunitensi diretti alla portaerei KKK, nome in codice della portaerei Forrestal”.
Ustica, l’ex maresciallo smentito
A smentire davanti a Priore l’ex maresciallo è stato un ufficiale superiore dell’aeronautica in pensione, che pur essendoci il verbale della sua testimonianza preferisce non essere nominato.
“Durante uno spostamento dei mobili d’ufficio che erano stati di quel maresciallo venne fuori una copia del certificato medico con il quale aveva giustificato la sua assenza dal lavoro per alcuni giorni in quel mese di giugno – compreso il giorno 27 – perché ricoverato in ospedale per essere operato. Mi pare di appendicite, ma non ne sono sicuro”.
L’ex controllore di volo di Villafranca Veronese non poteva quindi avere visto ciò che aveva detto a Priore di avere visto. Se l’è inventato di sana pianta per chissà quale motivo. L’ufficiale prosegue.
“Nel frattempo però Priore aveva man mano convocato come testimoni una marea di persone in servizio a Villafranca. Uno stillicidio. Che richiese molto tempo e non poca spesa di danaro pubblico. Quando andai da Priore per portargli il documento che smentiva il suo testimone si arrabbiò non poco, tanto da dirmi. “Stia bene attento a non parlare a nessuno di questo documento altrimenti la mando sotto processo per violazione del segreto istruttorio””.
Le indagini su Ustica: dove era la Saratoga?
Molto altro tempo Priore lo perse andando spesso negli Stati Uniti per appurare dove si trovasse quel tragico 27 giugno la portaerei Saratoga, sospettata di essere la base di partenza di aerei a stelle e a strisce che per errore avrennero abbattuto con un missile il DC.
“Eppure anche i sassi sapevano che la Saratoga quel giorno era a Gaeta, come di consueto quando era alla fonda”, racconta il testimone ufficiale dell’aeronautica. Che spiega:
“La prova era scaturita da una foto di una coppia di sposi, che sono stati immortalati con la Forrestal sullo sfondo. L’indagine è partita dalla proposta di un lettore del giornale Il Mattino di Napoli. Che aveva suggerito alla redazione di indagare sulla Forrestal.
Anche se quel luttuoso 27 giugno era un venerdì, giorno in cui ci si sposa raramente, si è dipanata la matassa. L’ originale della foto è stata sottoposta a perizia ed è risultato non contraffatto”.
Ma qual era il motivo dell’abbattimento del DC9? La risposta l’abbiamo già vista nel sommario dell’intervista.
“L’aereo dell’Itavia trasportava due barre di uranio e per questo è stato tirato giù”.
Barre d’uranio per fare cosa e destinate a chi? Cucchiarelli non ha dubbi.
“Quell’uranio era determinante per l’avvio delle centrifughe del centro nucleare pakistano che avrebbe dovuto fornire l’atomica a tutti i paesi musulmani. È Gheddafi che finanzia questo programma in prima persona. La bomba islamica verrà realizzata.
“Ma si parlerà anche di bombe sporche con uranio arricchito nell’ogiva. In quel momento in Libia c’è una azienda tedesca. Essa è in grado di fornire a Gheddafi un missile a più stadi forse rozzo ma efficace, capace di colpire Israele con testate sporche”.
Affermazioni suggestive, ma inconsistenti – tipo la “sfiammata” – per vari motivi.
Il primo è che le centrifughe, o meglio le ultracentrifughe, lavorano un gas – l’esafluoruro di uranio – per separare l’isotopo uranio 235, utile per le bombe atomiche, dall’uranio 238, che con le bombe non ha nulla a che vedere.
Quindi bisogna supporre che le due fantomatiche barre fossero di uranio 238 da trasformare in esafluoruro d’uranio. Ma con due barre al massimo ci si può stuzzicare i denti, perché per arrivare alla quantità di uranio 235 necessaria per una bomba atomica ci vuole una enorme quantità dell’isotopo 238. Quello che si estrae dalle miniere e che contiene quantità minime del 235.
Insomma, l’affermazione “Quell’uranio era determinante” non ha nessun senso. Suona bene ed è suggestiva, come la “sfiammata”, ma sono solo parole.
Il secondo motivo è che il Pakistan poi le atomiche le ha prodotte, ma “che avrebbe dovuto fornire l’atomica a tutti i paesi musulmani” è rimasta solo una chiacchiera. Anche perché i Paesi musulmani sono decine. E rifornirli “tutti” di atomiche, “sporche” o no, non passerebbe certo inosservato. Il resto del mondo non si limiterebbe a stare a guardare come i piloti colpiti dalla “sfiammata”.
Il terzo motivo è che solo un pazzo masochista e suicida lancerebbe contro Israele atomiche “sporche”, che usano cioè i normali esplosivi per vaporizzare l’uranio 238. E inquinare così con la (bassa) radioattività il territorio da colpire, sapendo bene che nel giro di pochi minuti Israele risponderebbe con il lancio di atomiche vere. Quelle capaci di ridurre l’intera Libia a deserto uccidendone tutti gli esseri viventi.
A dire il vero, riguardo le due barre di uranio c’è anche un quarto motivo, non da poco, ammesso dallo stesso Cucchiarelli.
“Il problema è che la perizia fatta sul Dc9 esclude che l’aereo le abbia trasportate”.
L’unica novità un po’ rilevante di Ustica & Bologna è l’accento messo sulle attività. E l’interesse di Israele a colpire l’Italia per la sua politica. Che all’epoca, grazie soprattutto ad Aldo Moro ma non solo a lui, era filopalestinese. Dichiara infatti Cucchiarelli:
“Il problema almeno per Ustica è il traffico di nucleare. A Bologna si deve colpire la libertà – non più ammessa dai nuovi circoli americani che esprimeranno la Presidenza Reagan. Che apparteneva al Lodo Moro, la scelta filo-araba e filo-palestinese di almeno una ampia parte del mondo politico e dei nostri servizi segreti all’epoca. Due schiaffoni tirati a mano piana sul volto dell’Italia”.
Tesi affascinante, forse azzeccata, che farà felice chi vede Israele come il fumo negli occhi, ma finora solo parole perché le dimostrazioni non ci sono. Tesi comunque contraddetta non solo dai molti libri dedicati al rapimento e uccisione di Moro, all’abbattimento del DC9 e alla strage della stazione di Bologna, ma anche dai libri pubblicati su tali argomenti dallo stesso Priore, sul cui lavoro Cucchiarelli dice di avere basato il proprio.