Se questi non basteranno dovrebbero arrivare in soccorso gli Stati, anche loro non proprio in una stagione di vacche grasse. Infine, qualora queste due strade si dimostrassero impercorribili o insufficienti, entrerebbe in gioco l’aiuto europeo del fondo Efsf che è stato sostanziosamente potenziato. L’articolazione dell’intervento e le risorse disponibili dovrebbero mettere al sicuro, almeno per un po’, da brutte sorprese. C’è però da dire che nel caso italiano “piove sul bagnato”: l’impegno cospicuo per le ricapitalizzazioni (solo per Unicredit servono 7,4 miliardi) e la decisione di valutare i titoli posseduti ai prezzi di mercato vengono a complicare una situazione finanziaria già molto deteriorata e delicata. Di che si tratta? I fattori di crisi degli equilibri di bilancio degli istituti di credito nostrani, a parte quelli già citati riguardanti i titoli sovrani, sono almeno cinque.
Vediamoli brevemente.
1) I privati in grado di apportare capitali freschi scarseggiano. I maggiori azionisti delle banche, cioè le fondazioni, navigano in cattive acque. Anche il loro capitale spesso risente della riduzione di valore dei debiti sovrani e comunque è falcidiato ancor più della sensibilissima flessione delle quotazioni azionarie delle loro partecipate bancarie: la Fondazione Cariverona, ad esempio, è arrivata a perdere l’80 per cento sul valore di carico delle azioni Unicredit, mentre la Fondazione Mps circa il 60 sulla sua controllata. L’euforica ripresa dei titoli in Borsa all’indomani di Bruxelles è certo una boccata d’ossigeno, ma di strada le quotazioni ne debbono fare veramente molta prima di riportarsi ai livelli d’antan.
2) La raccolta di fondi sul mercato, a causa dell’innalzamento degli spread sui titoli di Stato italiani che si ripercuote sulle obbligazioni bancarie e sulle altre forme di remunerazione dei capitali, è diventata negli ultimi tempi sempre più costosa. Le banche debbono via via rinnovare montagne di obbligazioni emesse negli anni scorsi per finanziare una campagna di fusioni e acquisizioni talora dissennata (solo i primi sei istituti italiani hanno emesso 18 miliardi di euro di bond nei primi nove mesi dell’anno); il pubblico si è fatto più diffidente; come si è visto, il differenziale di rendimento sui titoli pubblici si ripercuote sui bond bancari e per tamponare le falle si moltiplicano le offerte di certificati di deposito et similia, costosi e di più breve durata delle obbligazioni, per allettare gli investitori più restii a impegni di lunga lena.
3) Le insolvenze bancarie sono aumentate del 40 per cento in un anno, secondo l’associazione degli artigiani di Mestre (Cgia). Mediobanca, che ha esaminato i bilanci di 570 aziende di credito, calcola che i crediti dubbi, tra 2003 e 2010, siano aumentati del 15,3 per cento all’anno, salendo sul totale degli impieghi dal 2,9 del 2007 al 6,4 per cento l’anno scorso. E fra questi crediti dubbi sono aumentati maggiormente quelli a più alto rischio, le cosiddette “sofferenze”, rispetto ai meno pericolosi “incagli”. Le sole sofferenze lorde ammonterebbero a circa 95 miliardi e i crediti deteriorati netti delle cinque banche più importanti a 88 miliardi.
4) La situazione di pesante insicurezza della congiuntura economico-finanziaria fa sì che si sia inaridito l’importante canale di finanziamento costituito dai crediti interbancari. Le banche che dispongono di liquidità se la tengono bene stretta anziché metterla a disposizione (dietro compenso) di altre aziende di credito in momentanee difficoltà di finanziamento. Per i medesimi motivi – l’incertezza della congiuntura e i temuti rischi di crack – si è disseccata un’altra importante fonte di liquidità, quella costituita dai prestiti a breve dei fondi monetari americani.
5) Le agenzie di rating ci mettono del loro per lavorare ai fianchi un sistema bancario italiano già stressatissimo: solo per fare un esempio, Standard & Poor’s poco più di un mese fa ha tagliato l’outlook (le prospettive) di 15 grandi banche del Bel Paese, mentre per sette di esse, incluse Mediobanca e Intesa, è stato abbassato anche il rating. E’ una conseguenza inevitabile e quasi automatica del declassamento del debito sovrano italiano e anch’essa contribuisce ad elevare il costo della raccolta (vedi punto 2). Tutti i fenomeni critici elencati si riflettono, evidentemente, sull’offerta di credito all’economia, che viene strozzata (“credit crunch”).
Del resto, è come la vecchia storia dell’uovo e della gallina. Chi è nato prima? La depressione economica o la crisi bancaria? Ha scritto uno dei maggiori esperti italiani di economia bancaria, Marco Onado: “Le banche italiane scontano l’effetto congiunto della crisi europea e dell’incapacità di crescita del paese. La soluzione del problema passa… per un’azione di governo capace di rilanciare finalmente un’economia che negli ultimi 12 anni è cresciuta complessivamente solo del 2,7 per cento e che, secondo le previsioni del Fmi, accumulerà altri due punti di ritardo nei prosimi due anni. Non ci possono essere banche robuste in un’economia stagnante”. Se mi si consente un’autocitazione, il 4 febbraio scorso scrivevo su “Blitz quotidiano” un articolo dal titolo “L’annus horribilis dei banchieri”, intendendo come annus il 2011 e come banchieri quelli italiani. Ora che l’anno volge al termine la previsione appare più che ampiamente confermata. Ma soprattutto sorge un tremendo dubbio: non è che il 2012 sarà ancora più “horribilis”? Ai posteri l’ardua sentenza.
