La Bce ci chiede più flessibilità: che fare? Flex security, una risposta

ROMA – Nella lettera del 5 agosto scorso di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi al premier italiano, finalmente resa nota, fra i molti “consigli” (per qualcuno “diktat”) per restituire fiducia sull’Italia agli investitori ve n’è uno su cui merita soffermare l’attenzione. Dicono i presidenti uscente ed entrante della Bce: “Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”. E’ un argomento cruciale di cui mi sono occupato in un recente intervento su “Blitz” (“Lavoro: troppa flessibilità, poca produttività”, 21 settembre) e su cui vorrei tornare. In quell’occasione riportavo alcune opinioni e ricerche concordi nel ritenere che la grande fioritura di contratti a tempo determinato, durante gli ultimi anni, aveva sì aumentato la flessibilità in un mercato prima quasi completamente “ingessato” (fatto in larga maggioranza da occupati “garantiti”, con lavori “a vita”, senza possibilità di licenziamenti, piccolissime imprese a parte), però non solo offriva una “qualità della vita” modesta ai molti nuovi precari, non solo si rivelava sempre più difficile e lungo il passaggio dal contratto temporaneo a quello stabile, ma tendeva anche ad abbassare la produttività del sistema economico italiano, a causa dell’incentivo a scegliere produzioni ad alta intensità di lavoro poco qualificato e “mature”, a scapito dell’investimento in nuove tecnologie (“Siamo passati dalla crescita senza creazione di posti di lavoro alla crescita del lavoro senza crescita economica”, Tito Boeri).

Che fare? Ripristinare la massima possibile rigidità del mercato dell’occupazione (ritornando a una netta prevalenza dei contratti a tempo indeterminato, con conseguente pratica impossibilità dei licenziamenti) che però provocherebbe un forte freno alla creazione di nuovi posti? Oppure continuare, con qualche correttivo, ad aumentare la quota di lavoro precario, puntando sull’aumento degli occupati (che però, superata la cosiddetta “luna di miele” e sopraggiunti i tempi di crisi, sono i primi a essere espulsi)? Tra questi Scilla e Cariddi esiste una rotta che faccia suoi la maggior parte dei pregi delle due alternative, eviti la maggior parte degli scogli-difetti di entrambe e vada nella direzione che ci viene chiaramente indicata da Francoforte? La rotta c’è, anzi ve n’è più d’una: da diversi anni alcuni studiosi e politici della sinistra “riformista” si stanno applicando alla soluzione del quiz prendendo lo spunto dalla fortunata esperienza della flexsecurity danese. I due approcci più interessanti e articolati sono quello elaborati da Boeri e Pietro Garibaldi, con suggerimenti e integrazioni di molti altri economisti e giuslavoristi, e quello ideato da Pietro Ichino. Entrambi si sono tradotti in disegni di legge (e tali sono per ora rimasti) che possono venire integrati, in modo da costituire quell’“insieme di politiche attive per il mercato del lavoro” cui ci invita la Bce, da numerose altre proposte che da tempo giacciono in Parlamento (ad esempio, solo per citarne alcune, il disegno di legge di Paolo Nerozzi sul “contratto unico di ingresso” e le analoghe proposte presentate da Marianna Madia, da un lato, e da Benedetto Della Vedova ed Enzo Raisi, dall’altro).

Boeri e Garibaldi, per superare il dualismo precari/garantiti e le conseguenti iniquità e diseconomicità, hanno elaborato l’ipotesi di un “contratto unico”. In base a questo tutti verrebbero assunti con un contratto a tempo indeterminato ma per i primi tre anni sarebbe possibile il licenziamento, accompagnato però da un indennizzo crescente, pari a 15 giorni di paga ogni tre mesi di lavoro erogato, fino a un massimo di sei mesi per chi rimanesse in attività per tre anni. Dopo la scadenza di questo termine lo scioglimento del rapporto di lavoro sarebbe sottoposto alla disciplina vigente e in particolare all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (che prevede la “giusta causa” nelle aziende con più di 15 dipendenti, provocando un ulteriore tipo di dualismo). Si supererebbero in tal modo i periodi di prova previsti in molti contratti (o, secondo un’altra versione, si manterrebbe un’iniziale finestra di tre mesi senza indennizzo in caso di licenziamento) e i datori di lavoro sarebbero interessati al miglioramento del capitale umano a loro disposizione, considerati anche i costi che dovrebbero sopportare per rimpiazzarlo.

Il modello dei due studiosi prevede altre misure collaterali, anche tenendo conto che è previsto il mantenimento in vita pure delle attuali forme contrattuali. Fra le misure d’accompagno, la fissazione di un salario minimo per tutti i contratti. Inoltre i contributi previdenziali e per gli ammortizzatori sociali, nei casi in cui si volessero continuare ad utilizzare contratti a tempo determinato, dovrebbero essere aumentati, in modo da raggiungere quelli per i lavoratori a tempo indeterminato nel primo caso (ora per i contratti a termine sono inferiori) e per superarli nel secondo (considerato che i rischi di ritrovarsi in stato di disoccupazione sarebbero alquanto maggiori). In altre parole, vi sarebbe un complesso di interventi che disincentiverebbe fortemente il ricorso al tempo determinato e aprirebbe la strada al successo del contratto unico. Contratto, va aggiunto, che non è stato pensato solo per l’ingresso dei giovani al lavoro ma è studianto anche per i disoccupati brizzolati, per le donne che vogliono rientrare al mercato del lavoro quando i figli sono più grandicelli, ecc.

Personalmente, pur condividendo l’analisi su cui è basata la proposta Boeri-Garibaldi, non sono molto convinto della suddivisione tra un periodo di prova (tre mesi), uno di inserimento (tre anni con protezione indennitaria) e uno di stabilità (tutto il resto della vita lavorativa). Non mi pare che in tal modo vi sia un’adeguata discontinuità rispetto agli attuali contratti a tempo indeterminato, anche se, certamente, il progetto è più di altri digeribile dai sindacati. Meglio sarebbe se a un periodo iniziale, ipoteticamente di tre anni e con una protezione indennitaria limitata, ma forse con un limite massimo di età, ne seguisse un altro – che potrebbe durate per gran parte del percorso lavorativo – con protezione indennitaria crescente. Un esempio con dati modificabilissimi: dopo 10 anni di lavoro, in caso di licenziamento spetterebbe un’indennità pari a 20 mesi di retribuzione; dopo 20 anni di lavoro, un’indennità pari a 40 mesi di retribuzione; dopo 30 anni pari a 60 mesi di retribuzione.

Indennità “pesanti”, nell’esempio improvvisato, ma che potrebbero in molti casi risultare interessanti per entrambe le parti. Si potrebbe inoltre pensare a una decrescita dell’indennità durante gli ultimi lustri di lavoro, onde evitare che qualcuno, “furbetto” e dotato di alternative di occupazione, puntasse a farsi licenziare a tutti i costi per poter passare alla cassa. Un meccanismo del genere di quello ipotizzato (i numeri, ripeto, sono del tutto indicativi) potrebbe contribuire a limitare il fenomeno dei licenziati di mezza età (o quantomeno a dar loro un forte sostegno economico), di quella fascia over 45 e under 60, “troppo anziana per lavorare e troppo giovane per la pensione”.

Il “progetto Ichino” è sostanzialmente diverso da quello Boeri-Garibaldi, anche se in una certa misura le due proposte potrebbero integrarsi. Riguarderebbe le nuove assunzioni in un regime contrattuale particolare, liberamente concordato nelle diverse realtà tra aziende e sindacati. Le parti si accordano nel costituire un’agenzia che gestirebbe sia un meccanismo di assicurazione contro la disoccupazione che un servizio di riqualificazione e reinserimento al lavoro dei licenziati. L’agenzia garantirebbe al neo-disoccupato un’indennità, aggiuntiva a quella già esistente di disoccupazione, tale da garantirgli nel complesso il 90 per cento della retribuzione il primo anno, l’80 il secondo, il 70 il terzo e il 60 il quarto anno senza lavoro, termine ultimo per la superindennità (tutto ciò assomiglia molto al sistema adottato in Danimarca). Vincolo aggiuntivo: la durata massima di quello speciale trattamento di disoccupazione non può superare quella del rapporto di lavoro intercorso, detratto il primo anno. Il licenziato non ha solo l’“onere” di incassare: deve impegnarsi “a partecipare a tempo pieno a tutte le iniziative di riqualificazione e ricerca della nuova occupazione attivate per lui”, pena la perdita di tutti i benefici.

Si dirà: ma da dove vengono i soldini per fare tutte queste belle cose, specialmente in una fase, come l’attuale, di crisi della finanza pubblica e pure di quella d’impresa? A Ichino è riuscita la quadra, come direbbe Umberto Bossi: “Il finanziamento delle attività di riqualificazione e collocamento è sostenuto dalla Regione, con il contributo del Fondo sociale europeo. Il finanziamento del trattamento di disoccupazione è a carico dell’impresa che licenzia”. A quest’ultimo proposito, però, va aggiunto che per le aziende è un costo ben temperato, non una catastrofe. Infatti nel primo anno di disoccupazione l’indennità, pari al 90 per cento della retribuzione, è in buona parte costituita dai già esistenti trattamenti di disoccupazione (quello ordinario è pari al 60 per cento dello stipendio per otto mesi, quello speciale, praticato per l’industria, all’80 per 12 mesi). L’azienda deve “solo” integrare questi trattamenti e, siccome essi scadono dopo un certo numero di mesi, sarà interessata, tramite l’agenzia, a curare l’efficienza dei servizi di riallocazione, onde evitare i maggiori costi di una disoccupazione troppo prolungata.

Il beneficio del predetto meccanismo di garanzia viene “scambiato” con l’eliminazione di ogni controllo giudiziale sulla giusta causa e accompagnato, per coloro che hanno lavorato almeno un anno, da un’indennità pari a un mese per ogni anno di anzianità (tanto più “anziani”, tanto maggiore l’indennità. Il giuslavorista Ichino ha anche calcolato il costo complessivo del licenziamento nell’ipotesi minima (sei mesi di disoccupazione) e in quella massima (mancato ricollocamento). Nel primo caso ammonterà a zero, nel caso di un licenziamento dopo vent’anni si arriverà a 25 mensilità di stipendio più il costo del contratto di ricollocazione (tra il 230 e il 415 per cento del reddito annuo lordo). Contemporaneamente vi sarà però un risparmio nei costi aziendali: si provvederà infatti a una drastica riduzione dei contributi versati dalle imprese per la cassa integrazione, passando dal 3 allo 0,75 per cento del costo del lavoro, considerato che gran parte di questi contributi finisce a finanziare altre spese. Per le aziende significherebbe risparmiare in media circa due miliardi di euro all’anno.

I parametri possono venire variati all’infinito, ma l’obiettivo resta unico e meritevole di essere perseguito: consentire una notevole flessibilità in entrata e in uscita del mercato del lavoro, offrendo al contempo garanzie economiche sostanziose ai lavoratori espulsi: le strade indicate da Boeri, Garibaldi e Ichino meritano di essere seguite, con tutte le variazioni sul tema che la fantasia di politici ed economisti sarà in grado di suggerire. Solo così si potrà dare una risposta sulla riforma di assunzioni e licenziamenti all’altezza dell’ultimativa richiesta arrivata dall’Eurotower.

Published by
Warsamé Dini Casali