C’è un dato che la proposta Cgil sembra dimenticare: nel sistema fiscale italiano esiste già più di un’imposta patrimoniale sugli immobili. Basti pensare all’Ici su seconde e terze case che non è stata abolita come quella sulla prima abitazione. Oppure ai vari balzelli che colpiscono i trasferimenti di proprietà immobiliari. Un altro tipo di patrimoniale che viene di fatto applicata prevalentemente, ma non solo, agli immobili è l’imposta di successione, abolita da Berlusconi all’inizio del terzo millennio e in parte rispristinata da Prodi. La tassazione delle eredità ha una fortissima giustificazione etica, a differenza di una “normale” patrimoniale.
Quest’ultima, almeno in teoria, dovrebbe colpire stock di ricchezza sulla quale i detentori stessi hanno già pagato le imposte man mano che l’accumulavano sotto forma di flussi di reddito risparmiato. Benché l’imposta sulle successioni sia uno strumento condivisibile per ridurre le disuguaglianze e avvicinare le opportunità, essa è un lampante esempio dei limiti che hanno avuto finora avuto le patrimoniali che abbiamo conosciuto: gettito molto inferiore a quello teoricamente stimabile e grande difficoltà a far finire nella rete i pesci grossi.
Fra le critiche mosse al progetto Cgil, qualcuno ha evocato lo Stato di polizia che deriverebbe dalla mole di informazioni, bancarie o di altro tipo, che lo Stato dovrebbe raccogliere per verificare l’osservanza dell’imposta. Questa in realtà sembra una critica poco consistente, sia perché già ora lo Stato ha amplissime possibilità di verificare redditi e patrimoni, sia perché il vero problema – a sistema fiscale invariato – è il modesto uso che viene fatto di queste facoltà per combattere ‘’evasione. Il rischio forse maggiore della proposta Cgil è che a pagare la nuova imposta siano soprattutto i ceti medi, non in grado come i veri ricchi di sottrarre, con l’evasione ma anche e forse soprattutto con l’elusione, i loro patrimoni al fisco. Si dirà: la Cgil è il sindacato degli operai, dei braccianti, in generale dei lavoratori dipendenti a basso reddito. Non è suo mestiere preoccuparsi dei patrimoni dei ceti medi. In realtà un sindacato del lavoro dipendente dovrebbe prestare la massima attenzione a figure professionali, spesso nuove e numericamente in crescita a differenza di quelle tradizionali, quali gli esperti in informatica, i tecnici a più alta qualificazione e i quadri in genere.
Se dimentica questa banale esigenza il sindacato è destinato a diventare sempre più un’organizzazione di rappresentanza dei pensionati (che sono già, in effetti, la quota più consistente dei tesserati cigiellini) nelle cui fila finiscono – parola appropriata – tutte le figure operaie in declino numerico e soprattutto politico, in quanto destinate ad avere una sempre minore incidenza strategica nel ciclo produttivo. A partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, la fissazione di un punto unico di scala mobile, voluto dalla Cgil con la benedizione dell’Avvocato Agnelli, determinò, anno dopo anno, un fortissimo appiattimento delle retribuzioni: le più basse ottenevano una copertura dall’inflazione superiore al cento per cento; le più elevate venivano progressivamente ridimensionate. Alla fine le fasce di lavoratori con più alte responsabilità e qualifiche per sottrarsi all’appiattimento da socialismo reale si sono allontanate dal sindacato e hanno cercato, individualmente (dato il loro notevole potere contrattuale) o con piccole organizzazioni “corporative”, di recuperare il terreno perduto.
