maniera ancor più netta l’anno scorso. Nel 2010 il surplus di Pechino è ammontato a 183 miliardi di dollari, una cifra di tutto rispetto ma inferiore di 13 miliardi rispetto all’anno prima. E ciò è avvenuto nonostante le esportazioni ottenessero un nuovo primato: semplicemente perché le importazioni ne hanno segnato uno ancor più “brillante” a causa degli aumenti dei prezzi della materie prime e dell’aumentata quantità di beni di consumo acquistati all’estero.
Anche la crisi internazionale può giocare un ruolo nel ridimensionamento non solo congiunturale del miracolo cinese. Ha detto l’economista Nouriel Roubini che “la Cina può crescere rapidamente solo se i paesi ricchi spendono più di quello che producono e accumulano grandi deficit (che Pechino è, proprio per questo, ben disposta a finanziare, ndr.). Ora che gli Usa e il resto dell’Occidente spendono meno e cercano di ridurre i deficit, la Cina forza la crescita non sostenendo (come dovrebbe) i consumi dei cittadini, ma spingendo l’acceleratore degli investimenti immobiliari, infrastrutturali e industriali per aumentare la capacità produttiva”. E in effetti uno dei non ultimi problemi cinesi è dato da un eccesso patologico di risparmio, in parte determinato da carenza di beni di consumo disponibili sul mercato interno e in parte da un welfare sottodimensionato (per dirla con un eufemismo) a cui le famiglie insicure cercano di porre una toppa risparmiando.
Insomma, l’anatra non è ancora zoppa ma la sua postura non è più ritta e baldanzosa come prima.
