E’ recente la notizia che la Cina è divenuta ufficialmente la seconda economia mondiale, superando il Giappone. Ora davanti al Dragone non restano che gli Stati Uniti e vi è già chi pronostica che per il prossimo, e ultimo, sorpasso ci vorranno meno di dieci anni. Del resto la cavalcata di Pechino nel decennio appena trascorso è stata un galoppo senza rivali: nel 2000 a mangiare la polvere c’è l’Italia, nel 2005 i cugini d’Oltralpe, nel 2006 è la Gran Bretagna a rimanere indietro, nel 2007 cedono il passo anche i pur brillantissimi teutoni. Giappone compreso, è un guadagno di ben cinque posizioni alla testa dell’economia planetaria in un decennio, anche se, come vedremo più avanti, la “marcia trionfale” cinese potrebbe essere prossima a un sensibile rallentamento se non a un arresto.
Data l’enorme disparità nel numero di abitanti, il divario di reddito pro capite fra Cina e paesi occidentali più Giappone rimane ovviamente molto grande. Quel che è certo, però, è che il complessivo ruolo economico del colosso Repubblica popolare sullo scenario internazionale è ormai di primissimo piano. In particolare la Cina è da tempo il primo paese esportatore nel mondo e, anche per questo, detiene una quota rilevante (40 per cento) delle complessive riserve planetarie di valuta. Tutto ciò fra l’altro fa sì che Pechino possa dedicarsi crescentemente allo shopping nelle altrui contrade, avendo a disposizione per investire un fondo sovrano di poco meno di mille miliardi di dollari, scegliendosi anche bocconcini prelibati e marchi storici: dalla Volvo alla (ex) svizzera Addax Petroleum, dal nuovo terminal transoceanico del Pireo alle (ex) italiane Benelli (moto) e Meneghetti (frigoriferi).
Ma questi sono fiori all’occhiello: il grosso del surplus cinese è servito a fare acquisti in grande stile di titoli di Stato stranieri: innanzitutto quelli americani, of course, ma negli ultimi tempi e in misura crescente anche quelli europei e in particolare quelli dei paesi con maggiori difficoltà a collocare il loro debito pubblico, dalla Grecia al Portogallo, dall’Irlanda alla Spagna: i Pigs insomma. Il risultato di queste frenetiche sottoscrizioni? Oggi Pechino detiene quasi il dieci per cento del complessivo debito pubblico americano ma ormai anche più del sette per cento di quello dei paesi dell’area euro. E ormai la Repubblica popolare sembra diventata una specie di “croce rossa” (il colore è d’obbligo) per le dissestate finanze dei Pigs ma non solo. Tutto ciò il Dragone non lo fa certo per buon cuore. Innanzitutto ogni sottoscrizione miliardaria di titoli più o meno “spazzatura” è un ottimo viatico per le vendite di merci cinesi nell’ambito di accordi bilaterali. Ma Pechino, soprattutto, tra riserve in valuta e in titoli del debito pubblico, sta portando avanti una colossale operazione di diversificazione delle proprie riserve.
Ormai oltre un quarto delle totali riserve cinesi in valuta sono in euro, mentre la quantità di debito pubblico europeo detenuta nei forzieri del gigante asiatico si sta rapidamente approssimando a quella del debito pubblico Usa (circa 900 miliardi di dollari) in quegli stessi forzieri. Dove vuole arrivare la Cina non lo nasconde: goccia cinese dopo goccia cinese, ma non troppo lentamente, Pechino vuole approdare a un nuovo sistema monetario internazionale non imperniato esclusivamente sull’imperio del dollaro, bensì su tre monete: dollaro, euro e renminbi (o yuan che dir si voglia). Per quel che riguarda quest’ultima valuta, la strada affinché possa salire sul podio mondiale è più lunga e complessa che per l’euro non essendo ancora liberamente convertibile. La parità è tutt’ora decisa dal governo anziché dal mercato e nelle transazioni internazionali lo yuan continua ad avere un ruolo marginale. Ma i segnali che quest’epoca sta finendo si moltiplicano. Da poche settimane è cominciato il trading sulla moneta cinese a Wall Street mentre un numero ormai elevato di imprese cinese esportatrici (70 mila) è stato autorizzato a farsi pagare in “redback” (soprannome dello yuan per assonanza con il “greenback”, cioè il dollaro). Inoltre cominciano a vedersi in occidente obbligazioni denominate in
yuan e sono anche piuttosto richieste perché molti confidano in una rivalutazione della moneta di Pechino.
All’orizzonte della grande economia asiatica non si vedono però solo nuovi record e sorpassi: si cominciano a scorgere anche alcune nubi. Una prima turbolenza è data dalle tensioni sui prezzi: l’inflazione viaggia attualmente attorno al cinque per cento (alcune previsioni dicono che a metà 2011 avrà superato il sei). Un dato di per sé non drammatico ma che si fa più preoccupante se si prendono in considerazione i soli prezzi dei beni alimentari che crescono di circa il doppio (più dell’11 per cento). Questo è un dato particolarmente grave per un paese con un reddito pro capite ancora molto basso e dove quindi gran parte della popolazione spende una buona percentuale delle sue magre entrate per l’acquisto di generi alimentari. Se è vero che il regime autoritario ha fin qui potuto imporre una politica economica volta del tutto prioritariamente ad accrescere la dotazione di mezzi di produzione e di infrastrutture, esportando una grossa quota della produzione su base industriale, pare comunque difficile che su questa strada si possa continuare a lungo, sia per pressioni esterne che interne.
Quanto alle prime, è noto che dagli Stati Uniti e dagli altri paesi sviluppati c’è una pressante richiesta nei confronti di Pechino perché rivaluti lo yuan tenuto artificiosamente basso. Se la consistente rivalutazione si verificasse, l’inondazione delle merci cinesi sui mercati internazionali subirebbe un forte rallentamento. Com’è noto i dirigenti comunisti hanno finora fatto orecchie da mercante a questo invito all’apprezzamento: negli ultimi due anni lo yuan si è sì rivalutato ma di pochissimi punti (neppure quattro), assai meno di quanto vorrebbe l’Occidente. Bisogna però aggiungere – ciò che viene spesso sottaciuto – che se alla timida rivalutazione aggiungiamo il differenziale d’inflazione rispetto ai principali paesi industrializzati, allora la perdita teorica di competitività delle merci cinesi comincia a rappresentare un serio problema per il Dragone.
Fino a oggi il paese di Hu Jintao ha compensato le sue carenze di competitività soprattutto con liberalizzazioni “selvagge” del mercato del lavoro (ritmi crescenti, flessibilità massima degli orari, impieghi a tempo determinato, licenziamenti assai duri da far digerire in un paese comunista, ecc.), ampiamente possibili in un paese dove il sindacato contava come il due di picche. Ma ormai i segnali che proseguire su questa strada è via via più difficile e pericoloso si moltiplicano: scioperi, rivendicazioni salariali e di welfare (oggi quasi inesistente) sono all’ordine del giorno. E gli esempi di regimi “socialisti” che sembravano molto saldi e si sono sgretolati nell’“espace d’un matin” dinnanzi alla rabbia “popolare” non si contano più.
La forza lavoro cinese ha ottenuto negli ultimi tempi consistenti aumenti retributivi (in discreta parte erosi dall’inflazione), intorno al sei per cento medio annuo, tasso che però raddoppia nelle aree più intensamente urbanizzate e industrializzate. A questo fenomeno si congiunge strettamente quello dell’aumento dei costi delle materie prime, dal petrolio al rame, spesso provocato proprio dalla crescente domanda cinese di questi prodotti sui mercati mondiali. L’anatra pechinese si trova dunque davanti a una forbice che potrebbe mozzarle le ali: da un lato è sempre più evidente che la compressione dei livelli salariali non è più praticabile come mezzo per recuperare l’aumento dei costi di produzione; dall’altro questi ultimi incrementano ineluttabilmente proprio a causa del crescente livello di sviluppo e produzione della Repubblica popolare.
Che il volo del pennuto asiatico stia perdendo di abbrivio sembrano dimostrarlo anche i dati più recenti sul commercio estero. L’avanzo si sta, lentamente ma inesorabilmente, contraendo. E’ successo nel 2009 ma in
maniera ancor più netta l’anno scorso. Nel 2010 il surplus di Pechino è ammontato a 183 miliardi di dollari, una cifra di tutto rispetto ma inferiore di 13 miliardi rispetto all’anno prima. E ciò è avvenuto nonostante le esportazioni ottenessero un nuovo primato: semplicemente perché le importazioni ne hanno segnato uno ancor più “brillante” a causa degli aumenti dei prezzi della materie prime e dell’aumentata quantità di beni di consumo acquistati all’estero.
Anche la crisi internazionale può giocare un ruolo nel ridimensionamento non solo congiunturale del miracolo cinese. Ha detto l’economista Nouriel Roubini che “la Cina può crescere rapidamente solo se i paesi ricchi spendono più di quello che producono e accumulano grandi deficit (che Pechino è, proprio per questo, ben disposta a finanziare, ndr.). Ora che gli Usa e il resto dell’Occidente spendono meno e cercano di ridurre i deficit, la Cina forza la crescita non sostenendo (come dovrebbe) i consumi dei cittadini, ma spingendo l’acceleratore degli investimenti immobiliari, infrastrutturali e industriali per aumentare la capacità produttiva”. E in effetti uno dei non ultimi problemi cinesi è dato da un eccesso patologico di risparmio, in parte determinato da carenza di beni di consumo disponibili sul mercato interno e in parte da un welfare sottodimensionato (per dirla con un eufemismo) a cui le famiglie insicure cercano di porre una toppa risparmiando.
Insomma, l’anatra non è ancora zoppa ma la sua postura non è più ritta e baldanzosa come prima.