ROMA – Alla fin fine sono sostanzialmente due le correnti di pensiero economico che si confrontano quasi quotidianamente sulle cause e soprattutto sui rimedi per far fronte alla crisi attuale. Da un lato ci sono i “rigoristi”, quelli che predicano la prioritaria necessità di ridurre i deficit e i debiti pubblici, aumentando le tasse e soprattutto riducendo la spesa. Dall’altro gli “sviluppisti”, quelli che, pur riconoscendo la necessità di porre sotto controllo i bilanci degli Stati, ritengono che con soli tagli e tasse ci si infili in un circolo vizioso.
La riduzione di deficit e debiti non farebbe che accrescere le tendenze recessive già presenti nelle economie sviluppate, provocando, oltre che nuova disoccupazione e flessioni del Pil, una riduzione delle entrate fiscali e una maggiore richiesta di welfare e quindi, alla fine, un peggioramento dei conti pubblici: di qui la necessità di un susseguirsi praticamente senza limiti di manovre “lacrime e sangue” per riaggiustare in continuazione i bilanci statali. Per evitare questo “circolo vizioso” gli sviluppisti suggeriscono varie ricette che però tutte possono venire ricondotte ai classici rimedi keynesiani: spesa pubblica, possibilmente per investimenti, che riporti, tramite il meccanismo del moltiplicatore, le economie lungo un percorso di sviluppo.
La schematizzazione è in realtà un po’ una caricatura: oggi in realtà anche i più convinti rigoristi ammettono che subito dopo il risanamento dei conti si debbano implementare politiche di sviluppo, così come i più tenaci sviluppisti riconoscono che la loro terapia non può essere prolungata a lungo, pena la morte del paziente per eccesso di deficit. Insomma le scuole economiche si sono fatte più pragmatiche e flessibili. Lo stesso a quanto pare sta avvenendo, ma a passi molto cauti, anche per i governi dei paesi dell’eurozona.
Frau Merkel ammette a denti stretti che, dopo che tutti avranno fatto i “compiti per casa” con i propri conti, si dovranno anche realizzare politiche espansive e le istituzioni dell’Eurogruppo dovranno assecondarle (con maggiori risorse al Fondo salva Stati o con interventi della Bce). I premier dei paesi più deboli, dal canto loro, corrono su e giù fra le loro capitali e Bruxelles e Berlino, per mostrare alla maestra la cartella dei compiti “fatti” e chiederle che metta in calendario l’ora di sviluppo (“la Germania da molto tempo dà agli altri paesi una prova concreta di come la disciplina del bilancio pubblico e un’economia fondata sulla disciplina del mercato siano le migliori ricette”, però “ora bisogna pensare anche a politiche per la crescita”, Mario Monti).
Naturalmente gli economisti, sia perché non hanno responsabilità di governo e sia perché hanno sempre presenti le astratte teorie sulle quali si sono formati, sono più drastici nelle loro richieste e apprezzano poco le mediazioni diplomatiche dei premier che o sono troppo poco rigoriste oppure troppo poco “sviluppiste”. La verità di fondo è che nessuno, né i teorici né i politici, ha ben chiaro quale dovrebbe essere il “mix ideale” tra rigore e sviluppo, come conciliare i due termini e soprattutto quale sia la sequenza temporale corretta per i due tipi di misure, chi debba venire prima e chi dopo.
Per quanto riguarda i keynesiani, per convinzione o per interesse, siano essi economisti o politici, bisogna aggiungere che la ricetta di J. Maynard Keynes è stata elaborata soprattutto negli anni ‘30, quando i debiti degli Stati, se c’erano, erano irrisori rispetto agli attuali. Si poteva allora ipotizzare una politica di “deficit spending”, anche molto prolungata nel tempo, con effetti soltanto benefici sul “tono” delle economie. Del resto, a chi gli obiettava di occuparsi solo della ripresa congiunturale, degli effetti di breve periodo della politica economica, l’economista britannico rispondeva ironico: “Sul lungo periodo saremo morti”.
Oggi la situazione dei debiti pubblici è nettamente cambiata, sono aumentati in modo esponenziale. La crisi odierna è figlia della loro esplosione. Si sono moltiplicati i debiti degli Stati, più che raddoppiati in dieci anni: da poco si è superata la cifra di 40 mila miliardi di dollari, secondo il Fmi, e di 44 mila secondo altre fonti. Per le economie sviluppate – nelle quali si concentra una quota largamente maggioritaria del debito pubblico complessivo – il debito rapporto debito-Pil supera il cento per cento, come alla fine della seconda guerra mondiale, e per il 2016 si prevede che tale rapporto supererà di 34 punti percentuali il livello del 2007, sorpassando quota 107.
In più, come si è accennato, il debito statuale si concentra nei paesi più sviluppati che ormai da anni sono anche quelli con i più modesti tassi di sviluppo: detto in termini spicci, sembra che il debito pubblico svolga più la funzione di mantenere elevati livelli di vita che quella di finanziare lo sviluppo. Ma sono fortemente aumentati anche gli indebitamenti delle autonomie locali e del sistema bancario, legato a doppio filo a quello della finanza pubblica, nonché, attraverso quest’ultimo, anche l’indebitamento privato. I controlli su movimenti finanziari sempre più massicci, anziché farsi più stringenti si sono diradati: deregulation è stata la parola d’ordine per molti anni, almeno fino alla crisi del 2007-2008.
E’ chiaro che in questa situazione perseguire politiche keynesiane è pressoché impossibile, checché ne dica il premio Nobel Paul Krugman, keynesiano di ferro e mito per una parte rilevante anche della sinistra italiana. Così com’è impossibile, d’altro canto, uscire dalla crisi solo riducendo l’indebitamento e senza una ripresa dei tassi di sviluppo delle economie. La recessione, oltretutto, è malattia assai contagiosa, non risparmia nessuno: anche la “ricca” Germania comincia a mostrare chiari segni di rallentamento. Del resto, com’è pensabile che un’economia export-led come quella tedesca possa non risentire della crisi in cui versano quasi tutti i suoi principali mercati di sbocco?
In prima fila a sostenere le tesi anti-keynesiane vi sono due economisti italiani che hanno a lungo lavorato negli Stati Uniti e che proprio con Krugman hanno avuto roventi polemiche, Silvia Ardagna e Alberto Alesina. Ardagna sostiene, senza peli sulla lingua: “Bisogna tagliare la spesa pubblica, in particolare quella corrente per salari e impiego pubblico, sussidi alle imprese e trasferimenti alle famiglie, perché, come dimostra l’esperienza storica, correzioni di bilancio realizzate per la maggior parte attraverso tagli di spesa hanno maggiore possibilità di successo, riuscendo a innescare una riduzione del debito pubblico e a generare effetti virtuosi sulla crescita”.
Il discorso della Ardagna è ovviamente molto più articolato e basato anche su ricerche empiriche. Fra l’altro l’economista sostiene che ridurre i livelli dei salari pubblici ha effetti positivi di moderazione salariale anche sul settore privato “favorendo competitività, profittabilità delle imprese e investimenti privati”. Analogamente “la riduzione dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico (resa possibile da un taglio alle spese, ndr.) si traduce anche in più bassi tassi sul credito ai privati. Ciò, ancora una volta, favorisce gli investimenti privati”.
Spunti teorici, ricerche empiriche, abilità dialettiche: su queste basi non sembra che la controversia fra rigoristi e sviluppisti possa trovare soluzione. Forse, in attesa di un novello Keynes o di un novello von Hayek, è meglio più modestamente cercare dei parziali compromessi su basi empiriche: è su questo terreno che gli economisti dovrebbero oggi esecitarsi. Ad esempio, se è vero che una politica di deficit spending è improponibile per le disastrate finanze pubbliche italiane, essa sarebbe invece possibile e auspicabile per l’eurozona nel suo complesso. In altri termini paesi come la Germania dovrebbero in questa fase aumentare la domanda a beneficio di quei partner, come l’Italia, che non se lo possono permettere e che però necessitano di mercati di sbocco.
Berlino dovrebbe essere disposta a “scambiare” le sue pretese di maggior rigore nei nostri bilanci con una sua politica economica maggiormente espansiva. Ma anche all’interno dei singoli Stati più fragili è possibile, entro certi limiti, fare una politica di crescita della domanda se la si accompagna con un parallelo aumento del prelievo fiscale su redditi e patrimoni che alla domanda contribuiscono poco o nulla, per non parlare della possibilità di una parallela riduzione dell’evasione. E’ una strada stretta e impervia, quest’ultima, ma che può dare qualche buon frutto. In sostanza, non tagli fine a se stessi, finalizzati solo a un pareggio di bilancio con effetti recessivi, ma maggiori spese finanziate con maggiori prelievi su rendite, patrimoni, alti redditi e in generale radicate su un allargamento della base imponibile. Ricominciamo da qui, piuttosto che da sterili contrapposizioni di scuola o di bottega.