Le private label non sono un’invenzione recente perché i primi esperimenti risalgono a 130 anni fa: li pose in atto una catena di negozi degli Stati Uniti, The Great Atlantic & Pacific Tea Company (A&P). Solo da qualche decennio il fenomeno ha però assunto rilievo, soprattutto in alcuni paesi e assai meno in Italia. Nella Penisola, però, di recente stiamo assistendo a un galoppo della quota di fatturato realizzata con questo tipo di etichette e a questo fenomeno non è certamente estranea la crisi di questi anni e le conseguenti nuove strategie familiari di spesa per sbarcare il lunario e non precipitare nella paralisi della quarta settimana. Nel 2010 i prodotti a marchio privato hanno conquistato una quota del mercato del largo consumo pari al 15,4 per cento, pari a 8,1 miliardi di euro: quasi il triplo della quota che questi prodotti detenevano nei primi anni ’90 quando, sia detto per inciso, la quota del lavoro dipendente sul reddito complessivo ha cominciato a declinare.
Nel 2007, a crisi appena iniziata, la quota dei private label era in Italia del 12,2 per cento: in tre anni hanno conquistato un ulteriore 3,2 per cento del mercato. Ancora poco, certamente, se il confronto, anziché in Italia tra i vari anni, viene fatto con gli altri paesi più sviluppati: in Gran Bretagna, dove la famosa catena Sainsbury inventò le “white label”, prodotti così chiamati perché sulla confezione era indicato solo il contenuto, senza alcun marchio, le private label sono al 44,6 per cento, in Spagna al 32, in Germania al 29,9. La forte differenza con la situazione italiana si spiega principalmente con l’assai maggiore frammentazione del settore distributivo, ivi inclusa la Gdo, rispetto agli altri paesi citati. Ma è una situazione che va mutando ed è quindi opportuno seguire anche gli sviluppi del fenomeno “private” perché potrebbero presto essere clamorosi, con ripercussioni in molteplici direzioni, non da ultima quella del mercato pubblicitario.
Quanto al legame tra crescita di questa quota e crisi economica, si potrebbe obiettare che il consumatore che vuole risparmiare potrebbe più semplicemente ricorrere ai discount. In effetti è ciò che fanno in molti. Ma il prodotto con marchio privato di una grande catena di distribuzione agli occhi del cliente è maggiormente competitivo con il prodotto di marca rispetto a quello del discount: gli si riconosce insomma una qualità e un’affidabilità pari a quella della catena che lo mette in commercio. Tant’è vero che vi è chi sostiene che la Gdo sviluppa le private label non soltanto per ottenere un extraguadagno ma anche per fidelizzare i clienti, attrarre segmenti diversi della platea degli acquirenti e rafforzare l’immagine dell’insegna in termini di convenienza. Non è un caso, a proposito di quest’ultimo obiettivo, che esista e si stia rapidamente sviluppando anche una tipologia di private label del tutto all’opposto di quella fin qui considerata: etichette definite “premium” che contraddistinguono linee di prodotti di alta gamma che costano di più, a volte parecchio di più, della marca leader del mercato (ne è un esempio Sapori e Dintorni della Conad che commercializza alimentari tipici regionali di alta qualità). Inutile dire che con questi chiari di luna dell’economia quest’ultimo tipo di private label ha un peso del tutto marginale anche se in rapida crescita.
