Crisi e prezzi: occhio all’etichetta

ROMA – La crisi economica che a fatica l’Italia cerca di lasciarsi alle spalle ha aumentato in questi ultimi anni la fascia sociale dei poveri, ha drasticamente tagliato le altrimenti notevoli capacità di risparmio degli italiani, ha accresciuto il numero dei senza lavoro e dei lavoratoti precari e saltuari. La cosiddetta questione della “quarta settimana”, o, in altre parole, di come arrivare alla fine del mese con una capacità d’acquisto che già prima della crisi si era notevolmente ridotta per il lavoro dipendente, investe strati sociali sempre più ampi. E ne stimola l’inventiva: gruppi d’acquisto che si rivolgono direttamente ai produttori saltando l’ingrosso e la distribuzione commerciale; incremento dei clienti degli hard discount; cambiamenti nella composizione della spesa, ecc. ecc.

Dello stesso segno è un fenomeno che merita qualche attenzione: la crescita della quota di mercato nella grande distribuzione organizzata (Gdo, supermercati e ipermercati) delle “private label”. Trattasi di quei prodotti, alimentari ma non solo, e di quei servizi che le catene della Gdo commercializzano con un marchio che può richiamarsi esplicitamente alla catena distributiva (ad esempio i prodotti a marchio Coop) oppure non esplicitare tale legame (ad esempio Clever per Billa o Consilia per il gruppo Sun). Questi prodotti, in generale anche se non sempre, come vedremo, sono venduti a un prezzo inferiori anche del 50 per cento rispetto a quello dell’analogo bene della marca leader, la più nota e pubblicizzata, che si può trovare nello stesso supermercato.

Per la precisione, esistono diverse tipologie di private label. La più diffusa è quella cosiddetta del “primo prezzo”, vale a dire del prezzo più basso per quel tipo di merce. Sono questi beni che possono avere prezzi inferiori anche del 50 per cento e che negli ultimi anni ha conosciuto un incremento delle vendite assai maggiore di quello dei prodotti a prezzo “medio”. Questi ultimi sono soprattutto quelli che fanno capo alla tipologia del cosiddetto prodotto-insegna, che cioè porta lo stesso nome della catena che lo commercializza: in questo caso in genere lo sconto non supera il 25 per cento.

Le private label non sono un’invenzione recente perché i primi esperimenti risalgono a 130 anni fa: li pose in atto una catena di negozi degli Stati Uniti, The Great Atlantic & Pacific Tea Company (A&P). Solo da qualche decennio il fenomeno ha però assunto rilievo, soprattutto in alcuni paesi e assai meno in Italia. Nella Penisola, però, di recente stiamo assistendo a un galoppo della quota di fatturato realizzata con questo tipo di etichette e a questo fenomeno non è certamente estranea la crisi di questi anni e le conseguenti nuove strategie familiari di spesa per sbarcare il lunario e non precipitare nella paralisi della quarta settimana. Nel 2010 i prodotti a marchio privato hanno conquistato una quota del mercato del largo consumo pari al 15,4 per cento, pari a 8,1 miliardi di euro: quasi il triplo della quota che questi prodotti detenevano nei primi anni ’90 quando, sia detto per inciso, la quota del lavoro dipendente sul reddito complessivo ha cominciato a declinare.

Nel 2007, a crisi appena iniziata, la quota dei private label era in Italia del 12,2 per cento: in tre anni hanno conquistato un ulteriore 3,2 per cento del mercato. Ancora poco, certamente, se il confronto, anziché in Italia tra i vari anni, viene fatto con gli altri paesi più sviluppati: in Gran Bretagna, dove la famosa catena Sainsbury inventò le “white label”, prodotti così chiamati perché sulla confezione era indicato solo il contenuto, senza alcun marchio, le private label sono al 44,6 per cento, in Spagna al 32, in Germania al 29,9. La forte differenza con la situazione italiana si spiega principalmente con l’assai maggiore frammentazione del settore distributivo, ivi inclusa la Gdo, rispetto agli altri paesi citati. Ma è una situazione che va mutando ed è quindi opportuno seguire anche gli sviluppi del fenomeno “private” perché potrebbero presto essere clamorosi, con ripercussioni in molteplici direzioni, non da ultima quella del mercato pubblicitario.

Quanto al legame tra crescita di questa quota e crisi economica, si potrebbe obiettare che il consumatore che vuole risparmiare potrebbe più semplicemente ricorrere ai discount. In effetti è ciò che fanno in molti. Ma il prodotto con marchio privato di una grande catena di distribuzione agli occhi del cliente è maggiormente competitivo con il prodotto di marca rispetto a quello del discount: gli si riconosce insomma una qualità e un’affidabilità pari a quella della catena che lo mette in commercio. Tant’è vero che vi è chi sostiene che la Gdo sviluppa le private label non soltanto per ottenere un extraguadagno ma anche per fidelizzare i clienti, attrarre segmenti diversi della platea degli acquirenti e rafforzare l’immagine dell’insegna in termini di convenienza. Non è un caso, a proposito di quest’ultimo obiettivo, che esista e si stia rapidamente sviluppando anche una tipologia di private label del tutto all’opposto di quella fin qui considerata: etichette definite “premium” che contraddistinguono linee di prodotti di alta gamma che costano di più, a volte parecchio di più, della marca leader del mercato (ne è un esempio Sapori e Dintorni della Conad che commercializza alimentari tipici regionali di alta qualità). Inutile dire che con questi chiari di luna dell’economia quest’ultimo tipo di private label ha un peso del tutto marginale anche se in rapida crescita.

La Gdo sulle private label ha maggiori margini di guadagno? Certamente sì e per diversi motivi. Innanzitutto perché questi prodotti non sono appesantiti dai costi di marketing, cioè in sostanza dalle spese pubblicitarie. E questo beneficia sia la Gdo che i clienti che scelgono il marchio privato. In secondo luogo perché la grande catena ha una forza contrattuale maggiore sui piccoli produttori cui commissiona i prodotti, e di cui a volte può essere l’unico cliente, rispetto alle industrie di marca. In Italia si stima che le aziende (copacker) che producono per le private label, e i cui nomi sono del tutto ignoti ai non addetti ai lavori, siano circa 1.500, la maggior parte delle quali, quasi il 90 per cento, sono piccole e medie imprese (i prodotti a marchio privato sono circa 20 mila, 1.000-1.500 per ciascuna catena di supermarket o ipermercati).

In qualche caso la Gdo produce essa stessa direttamente, con suoi impianti, le private label, o quantomeno una parte delle stesse. La già citata A&P ha messo in piedi negli anni ’60 un megastabilimento (il più grande al mondo del settore alimentare) per produrre il suo marchio privato. Di recente il gruppo americano ha attraversato una serissima crisi e forse l’idea di “frasi tutto in casa” non vi era estranea. La regola aurea vuole infatti che i prodotti maturi e ad alta intensità di lavoro siano affidati a copacker (ottenendo un’importante flessibilità nei costi), mentre semmai si fabbricano direttamente i prodotti più innovativi e più ricchi di know-how.

In qualche caso, ovviamente per nulla pubblicizzato, le stesse imprese che producono un prodotto di marca producono anche il medesimo prodotto nella forma di private label: possono esserci piccole differenze merceologiche ma in genere la qualità dei due tipi di etichette tenderà a somigliarsi assai e la convenienza del prezzo sarà ancora più evidente. Che interesse ha il produttore ad adottare un tale tipo di comportamento che, oltretutto, rischia di cannibalizzare la sua merce più rinomata? In particolare esso può avvantaggiare il produttore perché consente un maggiore utilizzo degli impianti, evita conflitti sindacali dovuti a brusche riduzioni dell’attività produttiva, e permette una diversificazione del prodotto che porta a un maggiore fatturato complessivo.

Ciascuna catena della grande distribuzione si avvale mediamente di 220 copacker e si registra una notevole “mobilità” (del genere: o accetti queste condizioni oppure mi rivolgo ad altri) anche se uno strumento spesso usato dai distributori per garantirsi qualità e prezzi sono i contratti pluriennali (durante la recente crisi molti copacker si sono trovati a mal partito per via dell’aumento dei prezzi delle materie prime che si accompagnava a prezzi di vendita fissi per più anni).

In conclusione, cosa consigliare al consumatore risparmioso? Di tenere d’occhio l’etichetta, certamente, ma poi di confrontare con altrettanta oculatezza le caratteristiche qualitative del prodotto che vi sta dietro. Affinché non ci si trovi inconsapevolmente dentro il noto film: “Sotto l’etichetta, niente”.

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Warsamé Dini Casali