ROMA – Nella seconda metà degli anni ‘70 fu coniato in Italia il termine “ripresina” per dire che la crisi economica forse era alle spalle ma la fase ascendente del ciclo era appena percettibile, debole, timida, precaria. Oggi quella parola ben si adatta alla congiuntura internazionale, dopo la forte recessione scoppiata fra 2007 e 2008. La recovery odierna è così modesta e piena di contraddizioni che i più pessimisti, o i più menagrami, negano persino che ve ne sia anche solo un venticello, mentre invece il mondo sviluppato, e gli Stati Uniti in primis, starebbero speditamente avviandosi verso una nuova recessione, verso la realizzazione di quel “double dip” che toglie i sonni a parecchi economisti. Quest’ultima paura sembra diffusa soprattutto al di là dell’Atlantico. Se temere un “doppio tuffo” nella crisi appare un tantino eccessivo, certo è che l’economia più potente del pianeta e il sovrano-dollaro, 24 mesi dopo la fine ufficiale della recessione, non appaiono davvero in ottima forma. E siccome, con qualche sfasatura temporale, il trend economico americano si è sempre ripercosso su quello dalla nostra parte dell’oceano, merita dare un’occhiata più da vicino a cosa sta accadendo nel paese più ricco del mondo.
Uno dei dati più anomali dell’attuale congiuntura Usa è quello che riguarda il tasso di disoccupazione. Oggi è al 9,1 per cento, praticamente lo stesso (9,5) di due anni fa, quando è finita la caduta recessiva. Il dato è assolutamente sorprendente se si pensa che questa persistenza di un esercito di disoccupati si manifesta dopo un lungo periodo di tassi d’interesse rasoterra e di abbondanti iniezioni di denaro pubblico per stimolare l’economia: le due fasi della cosiddetta “quantitative easing” (la seconda giunge in questi giorni al termine) hanno triplicato gli investimenti della Federal Reserve tesi ad alleggerire i bilanci bancari oberati di mutui incagliati e ad aumentare la liquidità a disposizione di tutti gli operatori (per qualcuno fin troppo, tanto da aver prodotto pressioni inflazionistiche).
Ed è sorprendente, quest’alta disoccupazione, anche rispetto all’andamento del mercato del lavoro dopo le maggiori crisi economiche del recente passato. Ha notato ad esempio Allen Sinai, economista americano molto influente, che nei decenni ’50-’80 il primo anno dopo la fine della crisi portava crescite del Pil intorno al sette per cento. Inoltre l’occupazione, sei mesi dopo la svolta congiunturale, cominciava ad aumentare al ritmo di 100 mila nuovi posti di lavoro al mese. Poi le cose sono cambiate: nel 1991 e nel 2001 sono terminate due recessioni ma perché vi fosse un rilancio consistente dell’occupazione sono dovuti passare, rispettivamente, 13 e 27 mesi. Oggi, come si è detto, ne sono trascorsi 24 e l’encefalogramma dei posti di lavoro è piatto mentre si registra un’inflazione elevata (quattro per cento) relativamente a un’economia che certo non si può dire surriscaldata. Negli Stati Uniti, infatti, anche la crescita del Pil al termine della più recente fase negativa del ciclo sta deludendo chi era abituato a ben altre performances: tra il 2,5 e il 3 per cento nei primi due anni di ripresa, oltretutto con una tendenza al calo. A quest’ultimo proposito, va notato che le previsioni per i prossimi 12-24 mesi mostrano segnalano concordemente risultati modesti sui terreni del Pil, dell’occupazione, dei consumi. Una prospettiva decisamente sconfortante per Barack Obama che alla fine dell’anno prossimo si giocherà la carta del suo secondo mandato.
Tra le molte anomalie della ripresina a stelle e strisce vanno senz’altro ricordati l’aumento della propensione al risparmio degli americani e il perdurante ristagno dei consumi. Quanto al primo, in un paese che non ha mai avuto una grande vocazione al non spendere, si è passati da una situazione in cui il risparmio era sotto zero (perché crescevano di più i debiti) a un tasso netto di risparmio attuale attorno al cinque per cento. Specularmente, i consumi ristagnano. In altri periodi questa maggiore accortezza dei cittadini Usa avrebbe potuto essere giudicata positivamente: oggi più che di accortezza si dovrebbe parlare di timore che le nubi della crisi finanziaria coprano ancora il sol dell’avvenire. E tutto ciò non favorisce certo il decollo dell’occupazione e della ripresa.
Per giungere a questi bei risultati il Tesoro di Timothy Geithner e la Fed di Ben Bernanke hanno messo in campo una potenza di fuoco enorme: 800 miliardi di dollari di stimoli all’economia; un massiccio acquisto di titoli sul mercato per sostenerne le quotazioni e aumentare la liquidità; un debito pubblico che dal 62 per cento del Pil nel 2005 raggiungerà il cento per cento quest’anno per salire ulteriormente nei prossimi; un deficit che dal 2 per cento del 2006 è giunto al 12,7 nel 2009, al 10,6 nel 2010 e si stima prossimo all’11 per cento quest’anno; e via spendendo. L’effetto, come si è visto, è stato finora piuttosto deludente, anche se chissà cosa sarebbe successo senza quella terapia d’urto che peraltro rischia di far abbassare il rating dei titoli del Tesoro Usa.
In principio vi è stata la crisi finanziaria, la bolla immobiliare, la folle corsa ai derivati. Fattori decisivi nel precipitare la prima economia del mondo nella crisi del 2007-2008 e, dietro ad essa, anche le altre principali economie. Ora l’attuale difficoltà americana ad uscire pienamente dal ristagno riflette numerosi fattori esogeni al sistema economico Usa, dalla crisi dei debiti sovrani nell’eurozona alla corsa dei prezzi di molte materie prime, il petrolio prima di tutte, al rallentamento dell’economia giapponese, in seguito allo tsunami, e di alcune importanti economie dei paesi emergenti, come il Brasile, che procedono sì a tassi che a noi farebbero gola ma che sono comunque alquanto inferiori a quelli attesi fino a poco tempo fa.
Per quanto riguarda la questione della disoccupazione Usa, pur risentendo ovviamente del complessivo quadro mondiale, pare certo che presenti delle specificità nazionali, americane. Gli Stati Uniti sono sempre stati considerati un paese con grande flessibilità dell’occupazione: questa veniva ridotta sensibilmente nelle fasi di stagnazione e recessione ma l’economia dimostrava una grandissima capacità di creare posti di lavoro non appena il ciclo rialzava la testa. A quanto pare non è più così, come si è già visto. Quali le cause? Secondo il già citato Sinai sono sostanzialmente due, oltre alle prospettive economiche poco incoraggianti: 1) un costo del lavoro troppo alto; 2) l’introduzione di tecnologie che riducono la manodopera e costano assai meno che in passato. Insomma, per usare vecchie distinzioni, si tratta di una crisi dell’occupazione strutturale e non meramente congiunturale che potrebbe venire superata solo tagliando drasticamente salari e contributi sociali. Non pare pane per i denti di Obama. Men che meno per quelli dei governanti dei paesi europei, molti dei quali si trovano di fronte problemi simili.