Alcune ricerche prodotte nei mesi scorsi da Ubs, Citigroup, Ing e altre istituzioni hanno stimato anche quantitativamente alcune conseguenze di un default nell’Eurozona o di una uscita dall’euro. A quest’ultimo proposito va detto che, dal punto di vista giuridico, non è previsto che un paese possa andarsene dalla moneta comune: se proprio lo volesse fare dovrebbe abbandonare anche l’Unione.
Naturalmente i trattati possono venire modificati anche su questo punto cruciale ma non sarebbe un percorso né semplice né rapido. Fra le conseguenze di un’uscita, per un paese europeo non tra quelli più opulenti del Nord, vi sarebbe quindi anche quella di perdere tutti i benefici del mercato comune e i trasferimenti, i fondi strutturali che l’Unione destina a ridurre gli squilibri territoriali, produttivi e distributivi. Si tratta di cifre consistenti: tanto per fare un esempio, alla Grecia l’Unione europea eroga 20,4 milardi di euro di fondi strutturali nel periodo 2007-2013.
L’eventualità di un’uscita “temporanea” dall’Ue e dall’euro, giusto il periodo strettamente necessario per mettere in campo una moneta nazionale, svalutarla e riacquisire la competitività perduta, pare assai difficile da realizzare. Non solo per tutti gli altri effetti negativi che verrebbero a prodursi, come vedremo in seguito, ma perché i paesi rimasti nell’Eurozona non accetterebbero di buon grado il ritorno di chi non ha a suo tempo rispettato regole e disciplina dell’unione monetaria e tornerebbe avvantaggiato e aggressivo dopo una svalutazione competitiva.
Peraltro, rientro o meno, non è affatto detto che la svalutazione del nuovo conio, si chiami esso dracma o lira o altro ancora, sia la panacea per ogni male del paese che scegliesse l’uscita dalla Ue. Gli altri membri dell’Unione molto probabilmente erigerebbero barriere doganali per difendersi dal neoconcorrente e in parte annullerebbero gli effetti del deprezzamento della sua valuta.
Se poi, come è il caso dell’Italia, chi se ne va acquista all’estero gran parte delle materie prime, e anche parte dei prodotti intermedi e finiti, la svalutazione provoca un rincaro dell’import che compenserà in tutto o in buona misura le quote di mercato estero acquisite grazie a maggiori esportazioni favorite dalla svalutazione competitiva. L’aumento dei prezzi dei beni importati, inoltre, si ripercuoterà rapidamente sul livello di inflazione del paese che svaluta e quindi sui redditi reali. Nel medio periodo, poi, sicuramente l’inflazione si rimangerebbe gli effimeri vantaggi della svalutazione.
Ma, prima ancora della agognata – spesso a sproposito – svalutazione, vi è il momento del passaggio dalla vecchia valuta (euro) alla nuova (nazionale), un momento delicatissimo che racchiude i pericoli e i costi più gravosi. Un primo costo non indifferente ma certo e quantificabile con precisione è quello connesso alla stampa e distribuzione delle nuove divise. Più elevato, anche se meno tangibile, sarà poi il prezzo del cambiamento – nei bilanci, nelle fatture, nelle transazioni finanziarie e così via – dalla vecchia alla nuova unità di misura.
Non scordiamoci che prima della nascita dell’euro vi è stata una lunga gestazione. Per un paese che oggi uscisse dalla moneta comune i tempi del passaggio diverrebbero cruciali e dovrebbero essere ridotti al massimo. E’ chiaro infatti che cittadini e imprese del paese uscente, quando la svolta si profilasse, anche senza annunci ufficiali, sulla base della fin troppo ovvia previsione di una svalutazione prossima ventura della nuova valuta (che in generale dovrebbe aggirarsi attorno al 50 per cento), cercherebbero di evitare di venire “uccellati”. E correrebbero agli sportelli a prosciugare i propri conti, per mettere gli euro sotto il materasso o, possibilmente, per esportarli. La Grecia ci sta offrendo un consistente assaggio di questo comportamento: nell’ultimo anno i depositi nelle banche elleniche sono diminuiti di decine di miliardi di euro, verosibilmente partiti verso istituti di altri paesi Ue.
