Euro a rischio default: il “crac Grecia” può diventare “crac Europa”

Leader a tavola al G20 di Cannes

ROMA – Considerate le convulse vidende degli ultimi giorni (referendum greco minacciato e poi rientrato, nuovi aumenti dello spread Btp-Bund, rinnovate e largamente disattese richieste all’Italia di un piano di risanamento e rilancio) e fatti tutti i debiti scongiuri, non pare del tutto peregrino avventurarsi in qualche esercizio di simulazione a partire da un’ipotetico (solo ipotetico, per carità) fallimento dell’euro.

E’ abbastanza facile prevedere le conseguenze (del resto sono già sotto gli occhi di tutti) di uno scivolamento graduale di questo o quel paese Ue fuori dai binari di un percorso di equilibrio finanziario: aumento progressivo del differenziale di remunerazione tra la spesa per interessi sul debito sovrano del paese fragile nei confronti di quella dei suoi partner; indebolimento dei bilanci bancari stressati dalla svalutazione dei titoli pubblici detenuti; credit crunch e connesso incremento dello spread fra costo del credito nel paese in difficoltà e medesimo costo altrove; flessione del Pil, dell’occupazione, delle retribuzioni reali, ecc. ecc.

Fintanto che questo processo procede graduale, magari tra arresti e riavvii più o meno duraturi, le conseguenze sono pessime ma “calcolabili”. Se però i fenomeni sopra accennati prendono velocità, si avvitano e si sottraggono a ogni possibile “governo”, divengono fuori controllo, allora ogni previsione si fa difficile se non impossibile. Tanto più quanto più grandi sono le dimensioni del paese interessato dalla crisi: se ancora qualche scenario si può disegnare partendo dall’ipotesi di un default greco, per esempio, un fallimento italiano provocherebbe conseguenze largamente imprevedibili, come ogni catastrofe peraltro, non solo per l’Italia ma anche per l’Eurogruppo nel suo complesso e per l’intero mondo.

Esagero? Non credo. Lo stesso premier inglese David Cameron, il cui paese a prima vista dovrebbe avere assai poco a che vedere con le vicissitudini dell’euro, solo un mese fa ha affermato: “L’Eurozona è una minaccia non soltanto per se stessa ma anche per l’economia britannica e per quella del mondo intero”. Ogni previsione è interdetta anche per il fatto che mai si è avuto un default di un grande paese industriale, di un membro del club dei più ricchi del globo: nessun precedente, scarsissima prevedibilità.

Il caso dell’Argentina, che con i suoi “tango bond” dieci anni fa ha provocato forti scossoni un po’ dappertutto, lasciando quasi a bocca asciutta gli investitori stranieri e massacrando la classe media locale, è assai più vicino al caso di un eventuale default greco, in termini di dimensioni del debito, che non a un caso spagnolo né tantomeno italiano.

Fatte queste premesse, avventuriamoci pure sullo scivoloso terreno dei possibili effetti di un fallimento di un grande paese dell’Eurogruppo (meglio non far nomi) ma anche di quelli che deriverebbero da un’eventualità di segno opposto e cioè dall’uscita dall’euro di un paese “ricco” che non volesse accollarsi ulteriormente la costosa difesa dei suoi più fragili partner.

Alcune ricerche prodotte nei mesi scorsi da Ubs, Citigroup, Ing e altre istituzioni hanno stimato anche quantitativamente alcune conseguenze di un default nell’Eurozona o di una uscita dall’euro. A quest’ultimo proposito va detto che, dal punto di vista giuridico, non è previsto che un paese possa andarsene dalla moneta comune: se proprio lo volesse fare dovrebbe abbandonare anche l’Unione.

Naturalmente i trattati possono venire modificati anche su questo punto cruciale ma non sarebbe un percorso né semplice né rapido. Fra le conseguenze di un’uscita, per un paese europeo non tra quelli più opulenti del Nord, vi sarebbe quindi anche quella di perdere tutti i benefici del mercato comune e i trasferimenti, i fondi strutturali che l’Unione destina a ridurre gli squilibri territoriali, produttivi e distributivi. Si tratta di cifre consistenti: tanto per fare un esempio, alla Grecia l’Unione europea eroga 20,4 milardi di euro di fondi strutturali nel periodo 2007-2013.

L’eventualità di un’uscita “temporanea” dall’Ue e dall’euro, giusto il periodo strettamente necessario per mettere in campo una moneta nazionale, svalutarla e riacquisire la competitività perduta, pare assai difficile da realizzare. Non solo per tutti gli altri effetti negativi che verrebbero a prodursi, come vedremo in seguito, ma perché i paesi rimasti nell’Eurozona non accetterebbero di buon grado il ritorno di chi non ha a suo tempo rispettato regole e disciplina dell’unione monetaria e tornerebbe avvantaggiato e aggressivo dopo una svalutazione competitiva.

Peraltro, rientro o meno, non è affatto detto che la svalutazione del nuovo conio, si chiami esso dracma o lira o altro ancora, sia la panacea per ogni male del paese che scegliesse l’uscita dalla Ue. Gli altri membri dell’Unione molto probabilmente erigerebbero barriere doganali per difendersi dal neoconcorrente e in parte annullerebbero gli effetti del deprezzamento della sua valuta.

Se poi, come è il caso dell’Italia, chi se ne va acquista all’estero gran parte delle materie prime, e anche parte dei prodotti intermedi e finiti, la svalutazione provoca un rincaro dell’import che compenserà in tutto o in buona misura le quote di mercato estero acquisite grazie a maggiori esportazioni favorite dalla svalutazione competitiva. L’aumento dei prezzi dei beni importati, inoltre, si ripercuoterà rapidamente sul livello di inflazione del paese che svaluta e quindi sui redditi reali. Nel medio periodo, poi, sicuramente l’inflazione si rimangerebbe gli effimeri vantaggi della svalutazione.

Ma, prima ancora della agognata – spesso a sproposito – svalutazione, vi è il momento del passaggio dalla vecchia valuta (euro) alla nuova (nazionale), un momento delicatissimo che racchiude i pericoli e i costi più gravosi. Un primo costo non indifferente ma certo e quantificabile con precisione è quello connesso alla stampa e distribuzione delle nuove divise. Più elevato, anche se meno tangibile, sarà poi il prezzo del cambiamento – nei bilanci, nelle fatture, nelle transazioni finanziarie e così via – dalla vecchia alla nuova unità di misura.

Non scordiamoci che prima della nascita dell’euro vi è stata una lunga gestazione. Per un paese che oggi uscisse dalla moneta comune i tempi del passaggio diverrebbero cruciali e dovrebbero essere ridotti al massimo. E’ chiaro infatti che cittadini e imprese del paese uscente, quando la svolta si profilasse, anche senza annunci ufficiali, sulla base della fin troppo ovvia previsione di una svalutazione prossima ventura della nuova valuta (che in generale dovrebbe aggirarsi attorno al 50 per cento), cercherebbero di evitare di venire “uccellati”. E correrebbero agli sportelli a prosciugare i propri conti, per mettere gli euro sotto il materasso o, possibilmente, per esportarli. La Grecia ci sta offrendo un consistente assaggio di questo comportamento: nell’ultimo anno i depositi nelle banche elleniche sono diminuiti di decine di miliardi di euro, verosibilmente partiti verso istituti di altri paesi Ue.

Nel caso di uscita conclamata di un paese dall’euro, sarebbe assai difficile evitare il crack del suo sistema bancario prosciugato di tutto il suo capitale dai prelievi dei depositanti. Unica soluzione: decretare per tempo la chiusura di tutte le banche. Un blocco che ovviamente dovrebbe durare il meno a lungo possibile, ma comunque compatibilmente con i tempi tecnici necessari a stampa e distribuzione della nuova moneta, fissazione delle nuove parità, ecc. ecc.

Ipotizzando che la non facile operazione riesca con minimi danni, si tratta ancora di fare i conti con il debito sovrano che è espresso in euro. Che fare? Rifiutarsi, puramente e semplicemente, di rimborsarlo? Concordare in qualche misura con i creditori un rimborso parziale, magari convertendolo nella nuova valuta? Preliminarmente bisogna vedere quanta parte del debito è in possesso di investitori nazionali e quanta parte di investitori stranieri. Si possono penalizzare entrambe le categorie allo stesso modo ma con effetti diversi. Lesinare il rimborso agli investitori nazionali significa tagliare i patrimoni (e ridurre i consumi con effetti depressivi) e in particolare mettere in difficoltà le banche locali tanto maggiore è la quota di titoli da esse detenuta.

Rinnegare il debito con gli investitori esteri crea ovviamente problemi “diplomatici” ma soprattutto rende assai più arduo e costoso ricorrere in seguito ai mercati internazionali per finanziare nuovo debito. In ogni caso c’è da mettere in conto che per parecchi anni (tra i cinque e i dieci, si stima solitamente) presentarsi sul mercato per piazzare nuovo debito sovrano sarà estremamente difficile e sicuramente si dovranno pagare spread notevolissimi.

Secondo Ubs il maggior interesse da pagare all’indomani dell’uscita si aggirerebbe attorno al sette per cento. Ma bisogna anche tener conto che non vi è solo il debito sovrano: le imprese del paese “periferico” che hanno contratto debiti all’estero in valute “forti” si troverebbero gravate da un macigno assai difficile da rimuovere nel caso di una svalutazione della nuova moneta. Fra l’altro il costo del credito sarebbe destinato ad aumentare e quindi diverrebbe più difficile ricorrervi per tamponare queste nuove difficoltà a onorare i debiti privati con l’estero.

Il complesso degli effetti accennati, anche nella versione più soft, darebbe probabilmente luogo a una duratura recessione accompagnata da una sostenuta corsa dei prezzi, e scusatemi se è poco. Secondo i calcoli di Ubs, l’uscita della Grecia dall’euro costerebbe ai cittadini di quel paese circa la metà (9-10 mila euro) del loro reddito nel primo anno e attorno ai 3.500 euro negli anni successivi. Ma il danno non riguarderebbe solamente le popolazioni dei paesi che se ne vanno.

Anche quelli che rimangono, i “forti”, subirebbero pesanti contraccolpi: meno esportazioni, rallentamento dell’economia, necessità di soccorrere le banche nazionali che subirebbero consistenti perdite sui titoli del paese fallito e così via. Tant’è che è stato calcolato qualche tempo fa che aiutare un paese come la Grecia ad evitare il default sarebbe costato a ogni cittadino tedesco circa mille euro, mentre lasciare che quel paese andasse alla deriva verrebbe a costare ai medesimi cittadini tedeschi tra gli otto e i diecimila euro.

Si può inoltre fare qualche stima partendo dall’ipotesi, meno probabile, di un ritorno di tutti i paesi dell’Eurozona alla loro divisa originaria o di un’uscita dall’euro del paese forte per eccellenza, la Germania (è noto che una parte dei suoi abitanti è assai insofferente verso ogni progetto di soccorso dei paesi “mediterranei”, più Irlanda, in difficoltà e vorrebbe che le strade di Berlino e degli spendaccioni del Sud si separassero). Nel primo caso (a ciascuno la sua valuta) si tornerebbe a una situazione di continui rischi di cambio che l’euro ci ha già fatto dimenticare ma che era assai costosa per le imprese. Gli esperti di Ing hanno calcolato che, in questa evenienza, precipiteremmo nella più profonda recessione: quest’anno il Pil dei paesi europei più forti si sarebbe ridotto in media del cinque per cento (3,8 per la Germania), mentre Spagna e Italia avrebbero perso il 6,5 e la Grecia più del nove. Inoltre sarebbero aumentati i tassi sul debito pubblico di tutti, ma soprattutto dei “periferici”.

Quanto al secondo caso, una stima dice che la Germania perderebbe inizialmente tra il 20 e il 25 per cento del suo Pil: basti pensare che la maggior quota delle esportazioni tedesche si dirige verso i partner Ue e che un’uscita della Germania dall’Eurozona comporterebbe, nel gioro di poco tempo, una rivalutazione della moneta tedesca stimata attorno al 40 per cento, creando gravi difficoltà per l’export.

Qui ci fermiamo. Augurandoci che questi scenari rimangano ipotesi di scuola. E che il buon senso prevalga fra i governanti dell’Unione.

Published by
Alberto Francavilla