Peccato che in questa marcia trionfale non siano poche le note stonate. Bancarotta fraudolenta, usura, frode: Geronzi è stato indagato più volte per reati il cui solo sospetto altrove stroncherebbe la carriera di qualsiasi banchiere. C’è da dire che, a parte una condanna in primo grado per il crac Italcase, anch’essa poi ribaltata in appello, ne è sempre finora uscito con la fedina penale pulita. Ma alcune vicende sono ancora aperte, come il processo per il crac Parmalat (15 miliardi di buco) e quello per la bancarotta Cirio, in corso a Roma, dove proprio nei giorni scorsi il pm ha chiesto una condanna a otto anni per il presidente di Generali. L’avvicinarsi del redde rationem per questo e altri casi giudiziari spiega forse almeno in parte la breve permanenza di Geronzi al vertice di Mediobanca. A questa presidenza, e a quelle del patto di sindacato e del consiglio di sorveglianza del “salotto buono” di via Filodrammatici, il banchiere di Marino era approdato nel 2007, subito dopo la fusione di Capitalia con Unicredit. Nel 2010 si preferì dirottarlo verso una poltrona di grande prestigio ma meno sensibile all’esposizione tribunalesca di quella della maggiore banca d’affari italiana.
Eccolo quindi sbarcare a Trieste meno di un anno fa, presidente di quelle Assicurazioni Generali che diedero lavoro a Franz Kafka e, più prosaicamente, amministrano una massa di capitali prossima ai 400 miliardi. Una poltrona tutta d’oro, praticamente un trono, insomma, che qualcuno può aver scambiato per un dorato laticlavio, un risarcimento di lusso per l’“arzillo vecchietto” dei Castelli Romani. Qualcuno assai poco documentato sul carattere imperiale del Cesare di cui si parla. A cui certo non ostava il fatto che la nuova presidenza non fosse addobbata con un congruo numero di deleghe. Come ebbe a dire un po’ di tempo fa lo stesso Geronzi: “Le deleghe? A che servono? A me basta il telefono e quello nessuno me lo può togliere”, intendendo che il suo potere e la sua rete di sodali, alleati, protettori politici e via elencando gli potevano aprire tutte le porte e permettere tutte le più ardite operazioni che la sua fervida fantasia gli suggeriva.
Alzare la cornetta o concedere un’intervista: con quella bocca mielosa da democristiano d’altri tempi Cesarone credeva di poter sempre dire ciò che voleva. Così ha fatto anche poche settimane fa parlando con il “Financial Times” e illustrando i “suoi” progetti d’investimento per il colosso triestino, dal concorso al finanziamento del Ponte sullo Stretto all’acquisto di quote in primari istituti di credito (leggi: Unicredit), senza mai rinunciare a tenere in cassaforte una panoplia di partecipazioni che poco o nulla hanno a che vedere con il “core business” assicurativo ma che sarebbero attinenti, ad avviso di Geronzi, al ruolo “sistemico” del Leone, c’est-à-dire con una presenza imprescindibile delle Generali nel campo dell’informazione (Rcs, nel cui consiglio Geronzi siede) e in tutti i grandi affari che si svolgono sul palcoscenico Italia (e quindi Telecom, Gemina, Pirelli, Intesa, Mediobanca, eccetera eccetera). Peccato si trattasse di argomenti su cui non doveva mettere bocca in quanto di stretta competenza dell’ad, Giovanni Perissinotto.