Geronzi ha sette vite: con le Generali, a quale è arrivato?

Cesare Geronzi

L’ottavo re di Roma forse ha commesso un errore quando ha lasciato il clima mite e il ponentino della Capitale, a lui così congeniali, per le nebbie e la bora dell’Alta Italia.

L’ascesa di Cesare Geronzi era parsa irresistibile per mezzo secolo, da quando, nel 1960, vinse il concorso per entrare in Banca d’Italia. Certo, le grane non erano mancate, incluse quelle giudiziarie, ma pareva che il ragioniere di Marino, fintanto che restava saldamente insediato nel suo territorio, potesse passare indenne attraverso qualsiasi turbolenza, forte della sua estesa rete di alleanze imprenditoriali e amicizie politiche. Queste ultime erano assolutamente trasversali: il banchiere, da sempre e innanzitutto legato a Giulio Andreotti, ha poi conquistato il cuore di alcuni tra i massimi dirigenti del Pci-Pds-Ds (partito cui concesse crediti a palate: nel 1996 ammontavano a 502 miliardi di lire) ma anche quello di Silvio Berlusconi con la cui Fininvest fu di manica larga nei primi anni ’90, quando era sommersa dai debiti e altre banche la tenevano a distanza, ovviamente prima della discesa in campo del Cavaliere.

Così come con i politici di opposte sponde, Geronzi è riuscito a farsi benvolere anche da entrambe le rivali tifoserie della Capitale: i due club della Roma e della Lazio hanno largamente attinto alle apparentemente inesauribili risorse della Banca di Roma (poi Capitalia). Fra i suoi amici storici, tutti romani doc o al massimo laziali, spiccavano Sergio Cragnotti, Giuseppe Ciarrapico, l’allora governatore di Bankitalia Antonio Fazio con cui i rapporti divennero poi alquanto freddi, e il furbetto del quartierino Stefano Ricucci. Geronzi godeva inoltre di assai buona stampa, grazie alla concessione di crediti a molte testate di ogni orientamento politico ma anche ai generosi contratti pubblicitari distribuiti dalla concessionaria Mmp, controllata dalla sua banca. Dal “Secolo d’Italia” a “l’Unità” e al “Manifesto”, passando per l’“Osservatore Romano”, ma anche i maggiori quotidiani “indipendenti”, per decenni tutti si sono ben guardati dal disturbare il manovratore.

Di manovre il Nostro ne ha fatte di ogni specie: approdato nel 1982 alla direzione generale della Cassa di Risparmio di Roma, una “banchetta” con 140 sportelli, attraverso una lunga serie di accorte acquisizioni e fusioni con istituti spesso in serie difficoltà (Banco di Santo Spirito, Mediocredito Centrale, Banco di Sicilia, Popolare di Brescia, Cassa di Reggio Emilia, ecc.), vent’anni dopo battezzava Capitalia: 1.900 sportelli, cinque milioni di clienti, 81 miliardi di depositi. Poi venne la fusione con Unicredit e il trasloco a Milano, a Mediobanca.

Peccato che in questa marcia trionfale non siano poche le note stonate. Bancarotta fraudolenta, usura, frode: Geronzi è stato indagato più volte per reati il cui solo sospetto altrove stroncherebbe la carriera di qualsiasi banchiere. C’è da dire che, a parte una condanna in primo grado per il crac Italcase, anch’essa poi ribaltata in appello, ne è sempre finora uscito con la fedina penale pulita. Ma alcune vicende sono ancora aperte, come il processo per il crac Parmalat (15 miliardi di buco) e quello per la bancarotta Cirio, in corso a Roma, dove proprio nei giorni scorsi il pm ha chiesto una condanna a otto anni per il presidente di Generali. L’avvicinarsi del redde rationem per questo e altri casi giudiziari spiega forse almeno in parte la breve permanenza di Geronzi al vertice di Mediobanca. A questa presidenza, e a quelle del patto di sindacato e del consiglio di sorveglianza del “salotto buono” di via Filodrammatici, il banchiere di Marino era approdato nel 2007, subito dopo la fusione di Capitalia con Unicredit. Nel 2010 si preferì dirottarlo verso una poltrona di grande prestigio ma meno sensibile all’esposizione tribunalesca di quella della maggiore banca d’affari italiana.

Eccolo quindi sbarcare a Trieste meno di un anno fa, presidente di quelle Assicurazioni Generali che diedero lavoro a Franz Kafka e, più prosaicamente, amministrano una massa di capitali prossima ai 400 miliardi. Una poltrona tutta d’oro, praticamente un trono, insomma, che qualcuno può aver scambiato per un dorato laticlavio, un risarcimento di lusso per l’“arzillo vecchietto” dei Castelli Romani. Qualcuno assai poco documentato sul carattere imperiale del Cesare di cui si parla. A cui certo non ostava il fatto che la nuova presidenza non fosse addobbata con un congruo numero di deleghe. Come ebbe a dire un po’ di tempo fa lo stesso Geronzi: “Le deleghe? A che servono? A me basta il telefono e quello nessuno me lo può togliere”, intendendo che il suo potere e la sua rete di sodali, alleati, protettori politici e via elencando gli potevano aprire tutte le porte e permettere tutte le più ardite operazioni che la sua fervida fantasia gli suggeriva.

Alzare la cornetta o concedere un’intervista: con quella bocca mielosa da democristiano d’altri tempi Cesarone credeva di poter sempre dire ciò che voleva. Così ha fatto anche poche settimane fa parlando con il “Financial Times” e illustrando i “suoi” progetti d’investimento per il colosso triestino, dal concorso al finanziamento del Ponte sullo Stretto all’acquisto di quote in primari istituti di credito (leggi: Unicredit), senza mai rinunciare a tenere in cassaforte una panoplia di partecipazioni che poco o nulla hanno a che vedere con il “core business” assicurativo ma che sarebbero attinenti, ad avviso di Geronzi, al ruolo “sistemico” del Leone, c’est-à-dire con una presenza imprescindibile delle Generali nel campo dell’informazione (Rcs, nel cui consiglio Geronzi siede) e in tutti i grandi affari che si svolgono sul palcoscenico Italia (e quindi Telecom, Gemina, Pirelli, Intesa, Mediobanca, eccetera eccetera). Peccato si trattasse di argomenti su cui non doveva mettere bocca in quanto di stretta competenza dell’ad, Giovanni Perissinotto.

14 giugno 2003: il "rottamatore" Diego Della Valle (e signora) al matrimonio di Chiara Geronzi, figlia di Cesare

Apriti cielo! Ne è scaturita la bagarre ben nota, che ha visto in prima linea Diego Della Valle a festeggiare il 76esimo compleanno del presidente (15 febbraio) con una raffica di durissime critiche alla sua “visione personalistica”, alle sue “affermazioni senza senso” e ai difetti di comunicazione in genere, fino ad ammonirlo di non “voler far pensare che lui copre un ruolo centrale nella governance di Generali: del resto, se l’avessimo voluto con questo ruolo non avremmo deciso a suo tempo all’unanimità di non dargli deleghe operative”, e persino a suggerirgli di cominciare a pensare alla pensione. Per farla breve, lo scontro si è provvisoriamente concluso con un compromesso che ciascuno dei contendenti ha interpretato a suo beneficio.

Il “rottamatore” Della Valle è convinto di aver guadagnato quantomeno il primo tempo della partita ridimensionando l’“arzillo vecchietto”. Un altro “arzillo”, Leonardo Del Vecchio, all’indomani delle sue dimissioni dal cda delle Generali, sulla cui interpretazione si affrontano tesi opposte (contro Geronzi o contro Perissinotto?), ha detto fra l’altro che il re è nudo: “Non è che conti molto ormai. Non ha alcun potere”. Ma c’è anche chi è convinto che il presidente del Leone sia uscito vincitore del round. Primo fra tutti, manco a dirlo, proprio Geronzi che, con l’aria curiale che lo contraddistingue in pubblico, si è detto “soddisfatto” del risultato sancito dal cda “in armonia”: sottolineando che lui continua a rappresentare le Generali negli accordi parasociali di Rcs, Pirelli e Mediobanca.

Ma il consiglio ha stabilito anche che nessuna partecipazione è strategica e che ogni decisione sulla sorte di ciascuna di esse, anche di quelle legate a patti di sindacato, spetta all’ad in base al criterio della creazione di ricchezza, anzi esclusivamente all’ad nel caso che il loro valore non superi i 250 milioni. Quest’ultimo è proprio il caso del pacchetto Rcs: il banchiere di Marino rischia quindi che prima o poi la poltrona nel patto di sindacato cui tanto tiene venga venduta. La quota di Generali in Rcs non è né strategica né redditizia, ma è assai importante per il controllo del “Corriere” e povrebbe venire ceduta in prelazione agli altri soci presenti nel controllo di via Solferino, tra cui lo stesso Della Valle che però in Rcs non conta solo amici.

L’ottavo re di Roma ha sette vite come i gatti. Se anche nei giorni scorsi ha subìto una mezza sconfitta è probabile che gliene resti ancora qualcuna da giocarsi con quel suo sorriso da micio sornione. Staremo a vedere. Nel frattempo, in questo clima di perdurante incertezza sulla governance del Leone, a farne le spese sono l’immagine della compagnia assicurativa e le quotazioni del titolo, e quindi le decine di migliaia di azionisti, mentre gli investitori istituzionali stranieri, che hanno già in saccoccia un 25 per cento del capitale, stanno alla finestra e non investono oltre in attesa di qualche certezza in più.

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Marco Benedetto