ROMA – Nell’ultimo ventennio del secolo scorso siamo stati spettatori di un’invasione: nelle italiche città, grandi e piccole, sono spuntati come funghi i ristoranti cinesi. Sorgevano spesso in quartieri abbastanza centrali, erano arredati con qualche pretesa, e mi sono spesso chiesto dove mai gli immigrati con gli occhi a mandorla che li gestivano trovavano i capitali necessari ad avviare l’intrapresa. In valori odierni, infatti, per acquistare e arredare un locale di medie dimensioni nel semicentro di una città come Roma o Milano, con le dovute licenze, difficilmente basta meno di un milione di euro. Dove trovavano una simile somma gli chef asiatici che arrivavano da un paese comunista-comunista (e non ancora pienamente approdato all’ircocervo comunista-capitalista degli anni più recenti) nel quale i redditi medi pro capite erano sì e no un decimo di quelli nostrani? Di più, col tempo spuntarono varie testimonianze di italiani che sostenevano di aver venduto a cinesi le loro attività di ristorazione o commerciali a un prezzo superiore a quello di mercato. E qualcuno aggiungeva: hanno insistito per pagarmi in contanti.
A chiudere il cerchio di questa apparente insensatezza imprenditoriale, i prezzi praticati per un pasto completo in gran parte dei locali a conduzione cinese sono sempre stati bassi o molto bassi: per qualsiasi ristoratore italiano risulterebbe impossibile far quadrare i conti offrendo una cena per dieci, massimo 15 euro. Certo, la qualità del cibo spesso lascia a desiderare, eccezioni (notevoli) a parte, e anche la varietà: immancabili gli involtini primavera, il maiale in agrodolce e il pollo alle mandorle. Un vero peccato che la gran parte di questi ristoranti presentino il medesimo, e limitato, menù, soprattutto se si tien conto che la cucina cinese è la somma di una grande quantità di cucine regionali e comprende migliaia di “piatti” deliziosi e sorprendenti per un palato occidentale, come si può verificare non solo visitando l’immenso paese ma anche frequentando quei pochi ristoranti cinesi costosi e raffinati che si possono trovare anche da noi.
L’epidemia delle più economiche trattorie cinesi in Italia appare dunque piuttosto misteriosa. La spiegazione, in molti casi ma certamente non in tutti, come emerge anche dalle poche inchieste giudiziarie condotte su questo terreno, ha un nome: mafia, o meglio Triade (Cosa nostra del Celeste impero). La mafia cinese ha lunghe tradizioni e larghissimi mezzi. Anche per la Triade (o le Triadi) si pone il problema di riciclare i patrimoni “sporchi” accumulati con le più varie attività illegali: traffico di droga e di rifiuti tossici, bische (i cinesi sono giocatori incalliti), prostituzione e altro ancora. Una buona soluzione a questo problema è l’acquisto di ristoranti o altre attività commerciali all’estero.
Che poi questi investimenti rendano poco è una questione di minore importanza: comunque permettono di lavare soldi sporchi, fungono da copertura per l’espansione fuori dalla Cina delle attività illegali, giustificano trasferimenti di denaro dall’Italia verso il paese asiatico (e soprattutto Hong Kong). Quest’ultimo fenomeno è in forte espansione anno dopo anno (le società di “money transfert”, molto utilizzate dai cinesi che in alcuni casi ne sono soci, hanno spedito in Cina 83 milioni di euro nel 2005 per superare in un paio d’anni i due miliardi).