Oltre al riciclaggio, gli investimenti all’estero delle cosche della Triade raggiungono anche un altro obiettivo: il controllo delle comunità cinesi che già si trovavano in Italia come in altri paesi. I costi di gestione delle attività di ristorazione o di altro tipo sono poi parecchio ridotti grazie all’utilizzo diffuso di veri e propri “schiavi”, come è stato accertato in più occasioni. La Triade organizza, guadagnandoci assai, l’emigrazione clandestina dal paese degli occhi a mandorla. Per arrivare in Italia si pagano alle cosche dai cinquemila ai 15 mila euro, somme che evidentemente non sono nella disponibilità dei poveracci che lasciano la Cina. Ne consegue che si indebitano e per ripagare il viaggio della speranza vengono costretti a lavorare, ad esempio nelle cucine di un ristorante, per anni (a volte per il resto della loro vita) con orari lunghissimi e salari irrisori.
Le cosche provvedono a piazzare i malcapitati nei diversi posti di lavoro e magari anche a fornirli di documenti (tutti hanno letto “Gomorra” di Roberto Saviano che ricorda il fenomeno dei rarissimi decessi nella comunità cinese: i morti ci sono ma vengono fatti scomparire in modo che i loro documenti possano essere riciclati assegnandoli ai “wu min”, i “senza nome”, gli immigrati clandestini).
Ma torniamo agli involtini primavera. Negli anni la spinta propulsiva del cibo esotico cinese si è esaurita, complici la qualità modesta, le ripetute scoperte di cibi avariati fatte dai Nas e gli allarmi per l’influenza aviaria. Molti ristoranti del paese dei fiori di loto si sono desertificati. Se prima guadagnavano poco ora le entrate spesso tendono a zero, un esito imbarazzante anche per le cosche che vedono ostacolate le loro manovre di riciclaggio.
Da qualche anno assistiamo dunque a una conversione produttiva su larga scala: dalla mattina alla sera calano le serrande dei ristoranti cinesi; dalla sera alla mattina negli stessi locali aprono i battenti sedicenti ristoranti giapponesi o thailandesi. Come è stato evidente nel caso dei documenti riciclati dei morti, pochi italiani sono in grado di distinguere un cinese da un altro grosso modo della stessa età e sesso. Altrettanto pochi sono quelli in grado di capire che il cameriere “giapponese” o “thai” in realtà viene dal Sichuan o dall’Henan o da un’altra provincia cinese: un rapido maquillage al menù, la sostituzione del sushi agli involtini primavera, e il gioco è fatto, si può ricominciare.
Se poi questa riconversione non basta, gli animal spirits delle cosche sono sempre vigili e pronti. Ecco quindi che negli ultimi anni arriva una nuova ondata di imprese commerciali cinesi. Aprono a frotte negozi che vendono articoli per la casa e cartoleria. Prezzi bassi e orari d’apertura estesi a volte anche alla domenica: gli ingredienti base della “cucina” alla pechinese sono sempre gli stessi.
