La possibilità di ricorrere a manodopera con scarse tutele e basse retribuzioni, facile da espellere a ogni stormir di fronde congiunturale, è stata sfruttata ampiamente nella penisola: tra il 1995 e il 2007 l’incremento medio annuo dei lavoratori con contratto a termine è stato di quasi il 7 per cento, contro poco più del 4 in Spagna, attorno al 3 in Germania e Francia, e addirittura decrementi in Gran Bretagna e Danimarca. Il sistema produttivo italiano nell’ultimo quindicennio è divenuto vieppiù ad alta intensità di lavoro poco qualificato (e poco retribuito), trascurando l’investimento in capitale e le innovazioni tecnologiche. Anche su questi aspetti si sono esercitati nei giorni scorsi tre economisti, Andrea Ricci, Mirella Damiani e Fabrizio Pompei, che su lavoce.info hanno sottolineato che negli ultimi 10-15 anni la produttività totale dei fattori è diminuita in tutta l’area euro per via della diffusione dei contratti temporanei.
Per quel che riguarda l’Italia, inoltre, dove questa diffusione come si è detto è stata particolarmente marcata, i tre ricercatori hanno verificato che un importante indice, il “grado di protezione” (dei lavoratori) per i contratti a termine, che può variare da 0 a 6, è calato nel nostro paese di ben 3,5 punti, “contro una media di 0,45 negli altri 14 paesi considerati”. Risulta assai significativa la correlazione tra l’andamento di questo indice e quello della produttività totale dei fattori, calata da noi del 3,77 per cento, sempre nel periodo 1995-2007.
Concludono Ricci & c. che senza un abbassamento delle protezioni sui contratti a termine la produttività totale nel terziario avanzato sarebbe cresciuta in totale di 7 punti in più: “L’uso dei contratti a termine sembra esercitare un impatto negativo sugli incentivi ad accumulare capitale umano specifico. L’effetto sembra prevalere soprattutto in economie come la nostra, dove le imprese sono specializzate in settori tradizionali e impiegano tecnologie e organizzazioni gestionali mature. E dove il ricorso al lavoro temporaneo, come opzione per ridurre il costo del lavoro (si veda sotto, ndr.), rischia di ritardare gli investimenti in innovazione e in competenze e dunque frena le potenzialità di crescita produttiva”.
A proposito di taglio del costo del lavoro, proprio stamani, in un lucido intervento sul quotidiano “Europa”, la radicale Emma Bonino ha sostenuto che la spinta all’utilizzo di lavoro a tempo determinato è dovuta grosso modo solo per il 20 per cento al tentativo di abbassare il costo del lavoro (per circa l’84 per cento dei contratti a termine il costo del lavoro è più o meno pari a quello dei corrispondenti salari a tempo indeterminato), mentre per l’80 per cento dipende dai costi troppo alti (o dall’impossibilità) dei licenziamenti. La Bonino torna quindi a spezzare un lancia in favore della flexsecurity alla danese, secondo la versione prevista nella proposta di legge elaborata da Pietro Ichino e altri (ne ho parlato su “Blitz” il 19 aprile scorso). In particolare Bonino rileva che nei paesi dove i costi complessivi dei licenziamenti sono tenuti più bassi da un’adeguata politica di “security” c’è una maggiore propensione alle assunzioni a tempo indeterminato: “Nei paesi dove è più facile licenziare, come nel Regno Unito, la percentuale di lavoratori con contratti temporanei non supera il 5 per cento, mentre in quelli in cui i lavoratori a tempo indeterminato sono ‘inamovibili’, come l’Italia, questa percentuale sale al 13 per cento (25 in Spagna)”.
Anche la vicepresidente del Senato sottolinea come la legislazione attuale incentivi “la scarsa propensione delle imprese italiane all’innovazione e la specializzazione in settori labour intensive: i lavoratori a termine sono utilizzati prevalentemente da imprese a basso capitale umano che hanno bisogno solo di personale poco qualificato e intercambiabile con un basso costo unitario”. Significativa e condivisibile la conclusione politica di Bonino: “La battaglia contro la flessibilità di licenziamento di Pd e della Cgil è persa, esattamente come quella contro l’innalzamento dell’età pensionabile. E’ solo una questione di tempo. Perché allora non trattare in maniera trasparente su questo tema per ottenere le migliori condizioni per i lavoratori, invece di rassegnarsi a perdere gratis, magari con l’inserimento di un comma in un decreto legge?”.
