ROMA – In principio vi fu lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti. All’origine della crisi attuale, com’è ben noto, vi fu quella dei mutui “subprime”, concessi cioè a debitori ad alto rischio di solvibilità, soprattutto per l’acquisto di beni immobiliari. Nel 2007-2008 l’esplosione delle insolvenze su tali crediti portò al collasso il sistema bancario americano, che li aveva copiosamente e allegramente concessi, e per effetto domino (e delle cartolarizzazioni) coinvolse numerosi e primari istituti di credito anche al di qua dell’Atlantico, con una perdita complessiva mondiale stimata dal Fondo monetario internazionale in 4.100 miliardi di dollari. Gli Stati, in primo luogo quello Usa ma anche buona parte di quelli europei, intervennero in soccorso delle banche per evitare una catena di fallimenti catastrofica.
Ma spesso in tal modo posero le basi per la più recente crisi dei debiti sovrani. Malgrado gli ingenti esborsi pubblici, comunque, la crisi del mercato immobiliare americano e la spada di Damocle sul sistema creditizio Usa, per fare l’esempio più significativo, appare tutt’altro che superata: secondo un esperto del settore, Laurie Goodman, in America vi sarebbero a tutt’oggi dieci milioni di mutui “underwater”, di importo superiore al valore dell’immobile acquistato grazie al prestito, pari a uno su cinque dei mutui ipotecari complessivamente concessi.
L’Italia nel 2007-2008 fu colpita assai meno direttamente di altri dalla crisi dei subprime: il suo sistema bancario, dissero in molti, era più solido anche perché la concessione di prestiti immobiliari era ancorata alla fornitura di garanzie reali mediamente più elevate da parte dei debitori. Inoltre non si verificò il crollo dei valori degli immobili che altrove aveva minato gli equilibri del sistema creditizio. Anche sotto quest’ultimo aspetto in molti sostennero che nel Belpaese non si era creata la maledetta “bolla” (cioè la sopravvalutazione dei prezzi) che in altre realtà, scoppiando, aveva trascinato gli assetti finanziari nel suo micidiale gorgo.
Peraltro da noi un’ingentissima massa di debito pubblico già incombeva da tempo, senza bisogno che ad alimentarla vi fosse il crollo delle garanzie immobiliari, e si accompagnava a una quindicennale debolezza strutturale dei tassi di crescita dell’economia. Così, quando quest’anno la crisi internazionale e in particolare quella dell’Eurozona si sono riacutizzate neppure l’Italia ha potuto sottrarvisi, anzi, come dimostrano le vicende di questi ultimi mesi, l’Italia è finita nell’occhio del ciclone ed è divenuta la principale mina vagante nelle acque dell’euro.
Fra i tanti guai che il professor Mario Monti dovrebbe ora cercare di tamponare, imponendo severi sacrifici agli italiani, se ne profila all’orizzonte uno da cui fin qui abbiamo pensato di essere esenti e che proprio alcune delle misure di risanamento di cui si sta discutendo potrebbero aggravare: una caduta dei valori immobiliari con tutte le conseguenze che altri hanno già dovuto almeno in parte pagare. Che in Italia non vi sia mai stata una “bolla” è tesi piuttosto ardita. Basti pensare che in capitali come Berlino o Bruxelles i prezzi delle abitazioni sono ampiamente al di sotto della metà di quelli medi correnti a Roma o a Milano.
Se nella Penisola la “bolla” non è finora scoppiata ciò può essere dovuto a diversi fattori. Innanzitutto al già citato diverso comportamento, assai più prudente, delle nostre banche nel concedere mutui agli acquirenti di abitazioni. Ma è evidente che se i valori di queste ultime dovessero subire forti svalutazioni anche i prestiti più “accorti” potrebbero venire a trovarsi “a corto” di garanzie ipotecarie, proprio mentre la situazione economica generale, la recessione e il conseguente aumento di disoccupazione, cassintegrazione e inoccupazione, stanno facendo uscire fette sempre più consistenti di popolazione dal novero di quanti sono in grado di onorare i loro debiti.
Si badi bene: fin qui non vi è motivo di ritenere prossimo uno “scoppio” della bolla immobiliare italiana paragonabile a quanto avvenuto negli States o, ad esempio, in Gran Bretagna. Ma vi sono invece numerosi segnali che è iniziato un più graduale ma non meno peridoloso “sgonfiamento” dei prezzi delle abitazioni che sul medio periodo potrebbe portare a conseguenze non troppo dissimili da quelle registrate altrove per il sistema bancario e per quello finanziario nel suo complesso.
Per inciso, se i valori immobiliari in Italia si sono mantenuti alti, dando l’impressione che non vi fosse alcuna “bolla”, forse ciò è in parte dovuto alla presenza di una rendita fondiaria che nelle grandi città italiche è molto rilevante e resistente per la grande indigenza del nostro sistema viario e di trasporti: abitare in centro o semicentro, a Roma e a Milano ma anche in numerose medie città, ha un “valore”, d’uso e di scambio, assai superiore che nei contesti urbani di altri paesi, basti pensare ai tempi di percorrenza delle auto private nel traffico (più 10 che 20 chilometri orari) o alle umilianti condizioni dei pendolari che utilizzano le ferrovie locali o debbono compiere lunghi tragitti in bus. In altre parole, un nostro handicap, l’alta rendita fondiaria, ha rappresentato un atout da punto di vista della vischiosità, del mantenimento di prezzi delle abitazioni elevati.
Chiusa la parentesi, veniamo ai segnali di flessione del mercato immobiliare nostrano che indicano, val la pena ripeterlo, non lo “scoppio” della bolla ma un progressivo “sgonfiamento”. Sono numerosi. In ordine sparso, si può innanzitutto citare il numero delle compravendite di abitazioni: sono state 869 mila nel 2006 e si prevede saranno circa 575 mila alla fine di quest’anno. Anche i permessi di costruzione di nuove case e di ampliamenti sono in forte calo: l’ultimo dato disponibile è quello del 2009: sono stati 160 mila contro i 305 mila del 2005. “Tout va bien quand le bâtiment va bien”, sostenevano i francesi. Oggi potremmo fare il verso ai cugini transalpini, “tutto va male perché le costruzioni vanno male”: si stima la costruzione di nuove abitazioni, rispetto a prima della crisi del 2008, sia calata del 40 per cento.
Secondo l’Ance il valore complessivo degli immobili residenziali italiani era di 4.954 miliardi di euro nel 2007, oggi è di 4.446 miliardi. Cinquecento miliardi di euro già andati in fumo. Luca Dondi, responsabile real estate di Nomisma, sostiene che c’è stato un rallentamento del mercato residenziale “che si è acuito a partire dallo scorso giugno” e che “il mattone oggi non ha prospettive di rivalutazione”. La maggior parte degli esperti del settore ripetono a ogni piè sospinto la parola magica: “repricing”. Tradotta in italiano significa che i proprietari di case e le società che hanno in bilancio immobili debbono decidersi ad abbassare i prezzi se vogliono far incontrare l’offerta con la domanda anziché allungare a dismisura i tempi delle compravendite.
Secondo l’ultima indagine periodica di Bankitalia, Tecnoborsa e Agenzia del Territorio, fra gli agenti immobiliari le attese di peggioramento del mercato superano quelle di miglioramento, rovesciando la situazione registrata nel trimestre precedente. Inoltre aumentano gli agenti che avvertono una diminuzione dei prezzi e quelli che segnalano l’incremento dei venditori secondo cui tali valori sono troppo bassi e dei compratori che, al contrario, li giudicano troppo alti. Infine si registra una riduzione di cinque punti percentuali dei nuovi mutui ipotecari rispetto alla rilevazione del trimestre precedente.
Quest’ultimo è un punto decisivo che potrebbe aggravarsi: le banche, infatti, alle prese con colossali problemi di aumento del proprio capitale e di liquidità, stanno stringendo i cordoni della borsa: riducono la concessione di mutui e hanno notevolmente aumentato i tassi (per i fissi si supera ormai abbondantemente il sei per cento), ciò che induce molti a rinunciare agli acquisti. Si contraggono, sostengono gli esperti, sia gli acquisti per “sostituzione” (cioè quelli di chi vuole cambiar casa per migliorare) che quelli per “necessità” (per la prima casa in ordine di tempo) che quelli per investimento (poiché c’è una prevalente attesa che i prezzi scendano ulteriormente e si preferisce mantenere la liquidità).
In questo quadro, cui andrebbe aggiunta la forte discesa delle quotazioni borsistiche delle società immobiliari, un ultimo fattore trattiene dall’investimento e deprime i prezzi: il timore di stangate. Reintroduzione dell’Ici sulla prima casa, patrimoniale, rivalutazione dei valori catastali: una tra queste misure, o una combinazione delle stesse, viene minacciata quotidianamente ed è assai probabile che presto verrà implementata, come ha annunciato Monti nel suo discorso programmatico. C’è da augurarsi che non si assommino (si tratta in tutti e tre i casi di imposte patrimoniali) e che non si esageri con i taglieggiamenti della più diffusa forma di risparmio degli italiani: il rischio, altrimenti, è che la crisi immobiliare si ripercuota pesantemente anche in Italia sia sui consumi e l’agognato sviluppo che sui conti delle banche e, di qui, sul debito sovrano. Sarebbe una cura da cavallo e soprattutto peggiore del male. Evitiamola.