Patrimoniale: no. Eliminare le pensioni di anzianità: sì

Chiamatela patrimoniale, chiamatela ripristino dell’Ici sulla prima casa, chiamatela revisione dei valori catastali… una cosa è certa: il nuvolone fiscale prossimo venturo è destinato a produrre un diluvio sui nostri tetti, una pioggia di nuove o più gravose imposte sulla casa. Ed è una perturbazione che si avvicina rapidamente, sospinta dal solito ventaccio della crisi.

La manovra estiva, per quanto quantitativamente rilevante, difficilmente raggiungerà l’obiettivo del pareggio di bilancio entro il 2013, sia perché da più parti si nutrono dubbi sull’effettiva capacità del governo di realizzare tagli e nuove entrate previsti, sia perché l’aumento degli spread, e per conseguenza dei tassi di interesse sul debito pubblico, si sta rivelando tutt’altro che effimero: quindi una buona fetta della manovra servirà per finanziare l’aumento del servizio del debito sovrano anziché l’azzeramento del deficit.

A ciò bisogna aggiungere il “decreto sviluppo” in dirittura d’arrivo: non tutte né la maggior parte delle misure per la crescita possono essere a costo zero, urge quindi reperire risorse anche a questo fine. Che fare? Dove raschiare ulteriormente il fondo del barile?

Le indiscrezioni che si accavallano da settimane indicano aumenti del prelievo con modalità diverse ma con uno stesso oggetto: il patrimonio immobiliare. Lo dice la parola stessa: immobile, quindi facile da arpionare. Vediamo dunque i principali pro e contro dei vari tipi di interventi fiscali sulla casa che sono stati ventilati negli ultimi tempi.

 Patrimoniale. Il consenso verso l’introduzione di questo genere d’imposta si va facendo via via più largo. Mesi fa era la sola Cgil a invocarla. Oggi, anche perché la situazione economica si è aggravata, è ben vista da gran parte della sinistra politica e anche da ampi settori del centrodestra, ma pure la Confindustria di Emma Marcegaglia ha spezzato una lancia in suo favore. Dalla soffitta è stato recuperato e ristampato persino un saggio del 1946 di Luigi Einaudi, liberale al di sopra di ogni sospetto, a favore di una patrimoniale straordinaria.

Di recente è intervenuto più volte sull’argomento Carlo De Benedetti, affermando fra l’altro: “Sono favorevole a una patrimoniale strutturale ad aliquota bassa, su tutto, non solo sugli immobili, che vada ad abbattere il carico fiscale che pesa sulle imprese e sul lavoro”. De Benedetti, nettamente a favore di un’imposta non mirata a un’immediata riduzione del deficit bensì alla ripresa delle attività produttive e dell’occupazione, incidentalmente evoca il maggior punto dolente della proposta: “su tutto, non solo sugli immobili”.

Ma il problema è, appunto, che tutte le forme di patrimoniale sperimentate, anche quando si proponevano come imposte generali sulla ricchezza, di fatto hanno colpito eclusivamente o quasi il patrimonio immobiliare. Allora, o ci si dice come colpire gli altri tipi di patrimonio, in primis la ricchezza finanziaria, ma sappiamo bene quanto sia più facile sottrarre questi cespiti alla scure del fisco, tanto più quanto più sono cospicui, oppure tanto vale chiamarla con il nome più appropriato di imposta sugli immobili. Se ricadiamo in quest’ultima fattispecie dobbiamo essere ben consapevoli di alcune cose. Innanzitutto che il gran parlare di patrimoniale ha già da qualche tempo messo in crisi gli investimenti immobiliari e in particolare le società quotate in Borsa che operano in questo settore. Bisogna inoltre tener conto che di patrimoniali sulla proprietà immobiliare già ne esistono diverse.

In particolare esiste l’Ici, di fatto un’imposta patrimoniale ordinaria sulle seconde case e sugli immobili non destinati ad abitazioni. Semmai bisognerebbe mettere in discussione, ma lo fanno solo i radicali, le esenzioni dall’Ici concesse alla Chiesa anche per gli immobili non destinati ad attività di culto o di assistenza, come gli alberghi gestiti da religiosi. Inoltre colpiscono come una patrimoniale i beni immobiliari le imposte di registro, catastali e ipotecarie che si pagano all’atto della compravendita di un’immobile e si configurano quindi come patrimoniali straordinarie: con aliquote agevolate gravano anche sulla prima casa.

La stessa Irpef, imposta sul reddito per eccellenza, quando colpisce il reddito catastale rivalutato delle seconde case o delle abitazioni date in comodato gratuito colpisce in realtà dei non-redditi ed è quindi una sorta di patrimoniale. Se poi il problema è tartassare maggiormente la prima casa, attualmente esentata dall’Ici e dall’Irpef (quest’ultima esenzione viene oggi rimessa in discussione) ma non dalle altre imposte, allora è tempo di aprire un nuovo capitolo.

 Ici prima casa. Senza l’abituale allure diplomatica, la reintroduzione dell’Ici sulla prima casa è stata chiesta di recente dalla Banca d’Italia. In effetti la sua abolizione, voluta dal governo Berlusconi dopo che già il centrosinistra aveva sensibilmente aumentato le quote di valore immobiliare esenti dall’imposta, ha sottratto ai Comuni una delle maggiori fonti di entrate, compensata solo parzialmente con trasferimenti e addizionali, proprio quando si faceva un gran parlare di federalismo fiscale. Comunque, rimanendo all’argomento centrale, e cioè alla tassazione della ricchezza immobiliare, l’Ici sulla prima casa presenta alcuni gravi difetti.

Innanzitutto perché si basa su valori catastali rivalutati che sono piuttosto lontani da quelli di mercato ma soprattutto non lo sono tutti alla stessa distanza. In altre parole vi sono abitazioni le cui rendite catastali sono la metà del loro prezzo di mercato e altre per le quali sono invece un terzo, un quarto o ancor meno. Questo fatto, che vale anche per le seconde case, fa sì che l’applicazione dell’imposta si accompagni inevitabilmente a una dose di iniquità “strutturale”. In secondo luogo, i medesimi valori catastali riflettono le diverse situazioni di rendita fondiaria nelle quali si inseriscono i vari immobili. Così chi ha un’abitazione in campagna avrà una rendita catastale inferiore ad una di pari misura in città; chi abita al Nord del paese l’avrà maggiore che nel Mezzogiorno, che abita nel “vecchio” centro storico magari l’avrà inferiore a chi abita in periferia. In tal modo le rendite catastali tendono ad approssimare – ma, l’abbiamo visto, molto al ribasso – i valori di mercato.

Ma siccome la prima abitazione è assai più un valore d’uso che un valore di scambio, costituisce una ricchezza molto teorica e che probabilmente non verrà mai realizzata sul mercato, tassarla appare improprio e ancor più lo è tassarla con un’imposta patrimoniale come l’Ici, con le difformità territoriali citate, tartassando con oneri assai diversi persone e famiglie che abitano abitazioni delle medesime dimensioni e caratteristiche per il solo fatto di trovarsi, magari da decenni o da secoli, in diverse aree del paese o del tessuto urbano.

Rendite catastali. E’ la soluzione più semplice per far cassa: aumentare le rendite catastali di una percentuale uguale per tutti. Le proposte ultimamente più ascoltate parlano del 10 o del 15 per cento. Valgono evidentemente anche per questa misura tutte le critiche ricordate in precedenza e riguardanti il catasto. Ciò non ha impedito anche a un governo di centrosinistra, quello Prodi nel 1997, di aumentare le rendite del cinque per cento.

E’ stato stimato che un nuovo aumento del 10 per cento di una rendita catastale originaria pari a mille (una casa di modeste dimensioni e qualità architettoniche), che già viene rivalutata un centinaio di volte, comporterebbe un aumento dell’Ici (seconda casa) di 53 euro annui, un incremento dell’Irpef (sempre seconda casa) di 57 euro e in caso di vendita un aumento delle imposte di registro, catastali e ipotecarie di 1.386 euro (o di 345 nel caso di imposte agevolate prima casa). Una discreta stangata, insomma, che sarebbe più sostanziosa per abitazioni oltre i 100 metri quadri e/o “signorili” e lo diverrebbe ancor più se si scegliesse l’alternativa di una variazione delle rendite del 15 per cento.

Nell’ipotesi estrema, che qualcuno ha voluto sollevare partendo dal presupposto che il riferimento ai valori catastali rappresenti una forma di agevolazione fiscale, di un abbandono dei medesimi valori catastali per commisurare tutte le imposte ai valori di mercato, l’Erario recupererebbe la bellezza di 62 miliardi, secondo le stime degli esperti che fanno parte del gruppo di lavoro sulle “tax expenditures”. All’idea i proprietari immobiliari potrebbero essere colti da malore, ma in realtà da questo lato non hanno moltissimo di cui preoccuparsi: bisognerebbe innanzitutto che lo Stato fosse in grado di definire i valori di mercato per tutto il patrimonio immobiliare, e non lo è di certo, quantomeno sul breve-medio periodo. Gli stessi esperti citati pensano piuttosto a una riduzione delle “agevolazioni” intrinsecamente connesse all’utilizzo dei valori catastali. E la via più breve è tornare al punto di partenza: aumentare detti valori di una percentuale uguale per tutti.

In conclusione, mi pare si possa dire che per ridurre gli squilibri del bilancio pubblico e finanziare azioni di sviluppo appare più opportuno battere altre strade, dall’eliminazione delle pensioni di anzianità alla riduzione degli sprechi e dell’evasione, più produttive e meno inique in un paese dove oltre l’80 per cento delle famiglie è proprietaria di un’abitazione che spesso costituisce l’unica zattera di salvataggio nel mare agitato della crisi.

 

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Marco Benedetto