A prima vista, di fonte a simili allarmi, nemmeno l’accelerazione dell’eliminazione delle pensioni di anzianità o quella dell’aumento dell’età di pensionamento femminile parrebbero sufficienti. Che fare, dunque? Tagliare le indennità di quiescienza già in essere? Aumentare i contributi previdenziali in un paese dove già la differenza tra costo del lavoro e retribuzioni nette è abissale? Ridurre i trattamenti futuri, addossando alle prossime generazioni un ulteriore prezzo da pagare?
Macché: a parte le due prime misure (anzianità ed età femminile), tutto il resto comporterebbe un’ulteriore, massiccia dose di iniquità sociale in un sistema previdenziale che ne ha già parecchia. Il perché è presto detto e gli allarmisti, soprattutto quelli “esperti” di pensioni, farebbero bene a evidenziarlo. Nel bilancio dell’Inps le uscite per pagare le pensioni ai lavoratori dipendenti sono più che compensate dalle entrate dei loro contributi. Tant’è che il comparto del lavoro dipendente presenta un attivo di 1,5 miliardi. Ancora più pesante è l’attivo dei parasubordinati o precari che dir si voglia: 7,2 miliardi. I buchi neri – o, meglio, i buchi rossi – stanno altrove. Innanzitutto nel comparto dei lavoratoti autonomi, coltivatori diretti, artigiani e commercianti, che hanno aliquote contributive attorno al 20 per cento (contro il 33 dei dipendenti). Poi nei “fondi speciali” (o ex fondi speciali), come quelli dei lavoratori dei trasporti, di quelli dell’elettricità e soprattutto dei dirigenti (quest’ultimo produce oltre 3,5 miliardi di perdite annue). Vi è quindi l’esigenza di un riequilibrio delle regole e dei contributi per la previdenza all’interno del mondo del lavoro nel suo complesso: impresa senz’altro difficile per quel che riguarda le pensioni già erogate, soprattutto per via dei “diritti acquisiti”, ma assolutamente improcrastinabile per il futuro anche prossimo.
Inoltre il bilancio dell’Inps, malgrado i cospicui trasferimenti statali, è appesantito da molteplici voci che con la previdenza non hanno nulla a che fare e che rappresentano piuttosto interventi assistenziali. Faccio qualche esempio: 1) le pensioni sociali, erogate a chi non ha avuto una vita lavorativa o non ha mai versato contributi; 2) le integrazioni al minimo per far ottenere un trattamento di sopravvivenza anche a chi non ha versato una quantità sufficiente di contributi; 3) le pensioni di invalidità civile e quelle di guerra (solo di queste ultime ve ne sono ancora 340 mila); 4) le varie indennità, da quelle di accompagnamento (13 miliardi annui) per gli invalidi civili totali a quelle per le minorazioni parziali; 5) le pensioni di reversibilità (27,6 miliardi) che però rappresentano più una forma di solidarietà fra aventi diritto alla pensione da lavoro che una forma di assistenza in senso stretto; 6) le contribuzioni figurative in caso di disoccupazione e la cassa integrazione guadagni.
Queste sono senz’altro le voci più significative, anche se non le uniche, delle erogazioni assistenziali che lo Stato fa gestire all’Inps e che in parte risarcisce con opportune trasfusioni di sangue. Perché insisto sull’aspetto assistenziale e non previdenziale dei trattamenti sopra elencati? Perché quando si parla del ritorno in rosso del bilancio Inps si tende a fare di tutta l’erba un fascio, senza distinguere tra previdenza e assistenza, col rischio di promuovere interventi di risanamento dei conti a carico dei lavoratori dipendenti, stabili o precari, in termini di allungamento della vita lavorativa o di restrizione delle prestazioni. Se è giusto che siano fatti i ritocchi già ricordati su anzianità ed età delle donne, soprattutto per un’esigenza di solidarietà ed equità intergenerazionale, nel caso dell’assistenza la correzione degli squilibri va fatta o riducendo le prestazioni (sappiamo bene che vi sono diffusi sprechi, si pensi alle pensioni di invalidità) o ricorrendo alla fiscalità generale, cioè alle imposte dirette e indirette che vengono prelevate a tutti, indipendentemente dalla loro collocazione nel mondo del lavoro.
Un esempio: sarebbe giusto che gli assegni di accompagnamento ai non vedenti fossero pagati solo dai lavoratori dipendenti e non dai pensionati, dai detentori di azioni e titoli pubblici, dagli imprenditori, dai possessori di patrimoni, insomma dai cittadini in generale? Evidentemente no. Eppure, quando si parla dei conti Inps la confusione tra previdenza e assistenza si ripropone in continuazione, anche da parte di esperti che sanno benissimo che “la quota (di erogazioni, ndr.) da finanziare con la fiscalità generale raggiunge i 75 miliardi di euro (circa 5 punti del Pil)” (Brambilla dixit). Sono soldi che in larghissima misura vengono trasferiti dallo Stato alle casse dell’Inps. E così deve essere. Chiediamoci piuttosto se il paese è sufficientemente ricco per potersi permettere di saldare questa spesa o non debba pensare a ridurla. E come fare per tagliare qualche miliardo senza toccare quelle prestazioni di minima civiltà e solidarietà verso i cittadini meno fortunati, incomprimibili da parte di una delle prime potenze economiche mondiali.
