Come è stato osservato da più parti, mentre il sistema di imposizione “individuale” è neutrale rispetto allo stato civile dei contribuenti, quello del quoziente non lo è affatto. Quindi, innanzitutto, per non discriminare le coppie di fatto bisognerebbe adeguare il concetto fiscale di coppia: in Francia il quoziente si applica a tutti i tipi di coppie, non solo a quelle unite dal sacro vincolo del matrimonio, perché i nostri cugini d’Oltralpe hanno da tempo varato i Pacs, quei patti paramatrimoniali che in Italia sono aborriti soprattutto da coloro che maggiormente tifano per i quozienti. Superato questo piccolo ostacolo, ve ne sono di più sostanziosi.
Se uno dei membri della coppia (tanto per fare un esempio non casuale, l’uomo) ha un reddito elevato, mentre la donna non lavora, con il quoziente otterrà un sensibile vantaggio fiscale, tanto maggiore quanto è più elevato il reddito del coniuge che lavora. Se l’altro coniuge dovesse iniziare a lavorare il vantaggio iniziale calerebbe drasticamente, fino ad annullarsi se i due redditi che entrano in famiglia si equivalessero. E’ evidente che il nuovo sistema sarebbe un potente disincentivo per il lavoro delle donne e ben corrisponderebbe a un modello di società dove l’altra metà del cielo fa i lavori di casa e l’uomo lavora.
Questo è particolarmente vero per l’Italia, dove il tasso di occupazione femminile è assai più basso che altrove (non raggiunge il 47 per cento). Non è quindi un caso che a battersi da sempre come leoni per l’introduzione del quoziente familiare siano la Chiesa (di recente l’ha riproposto il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei), una parte consistente del Pdl (l’ha ribadito ad esempio nei giorni scorsi, oltre che Silvio Berlusconi, il vicepresidente dei deputati del Pdl, Osvaldo Napoli, specificando che parlava “della famiglia riconosciuta dalla Costituzione”, vale a dire basata sul matrimonio), l’Udc in tutta la sua potenza di fuoco, a cominciare dal leader tutto partito e famiglie Pierferdinando Casini. Tant’è che qualcuno ha persino ipotizzato che l’introduzione del quoziente familiare possa costituire il “ponte” per una rinnovata alleanza fra il centrodestra e i centristi di Pierfurby.
Ma scendiamo dal cielo delle ideologie familiari alla terra degli interessi materiali: avvantaggiare i nuclei monoreddito significherebbe anche non tener conto che la “produzione” di due redditi è ovviamente più costosa di quella di uno solo: costi di trasporti più elevati, asili e baby sitter in presenza di figli e quant’altro. Anche da questo punto di vista, quindi, la penalizzazione della donna lavoratrice tramite il quoziente è evidente. La soluzione ci sarebbe: accompagnare i quozienti con un sistema di deduzioni e/o detrazioni per tener conto dei costi di produzione del reddito: ma ciò farebbe schizzare i costi della riforma al di là dell’immaginabile. Un simile “doppio binario” (quoziente più deduzioni) è stato pensato da qualcuno anche per ridimensionare altre magagne che i quozienti, a uno sguardo più ravvicinato, presentano, come vedremo nel seguito. Ma, di nuovo, i conti pubblici non potrebbero sopportare un tale sovraccarico.
I quozienti familiari comportano risparmi di imposte tanto più elevati quanto maggiore è il reddito del nucleo e quanto più è concentrato su un minor numero di soggetti. Questo dovrebbero ricordarselo coloro che invocano il nuovo sistema per motivi di equità sociale e di sostegno ai più deboli. Sarebbe invece pienamente legittima la posizione di chi sostenesse il nuovo strumento fiscale per favorire i redditi di quel ceto medio che paga le tasse: purtroppo un simile punto di vista non viene mai esplicitato, quasi ci se ne vergognasse e si preferisse un approccio populista, anche se in evidente rotta di collisione con la realtà dei fatti. E neppure viene evidenziato un altro possibile obiettivo del nuovo sistema, nettamente perseguito in Francia, cioè quello di incentivare la crescita demografica: se a questo si tendesse, anche le caratteristiche dei quozienti andrebbero coerentemente modulate.
Un lustro fa una studiosa dell’Università di Firenze, Chiara Rapallini, ha calcolato che, per nuclei familiari di pari consistenza, mantenendo inalterate le aliquote e il gettito ed eliminando deduzioni e detrazioni, “l’introduzione del quoziente comporterebbe la riduzione del reddito netto per i nuclei che si collocano nei primi sette decili di reddito a favore della crescita del reddito netto di coloro che si collocano nell’ottavo e nel nono decile”. In altre parole le famiglie più numerose e più “ricche” sarebbero beneficiate, quelle povere, numerose o non, sarebbero penalizzate. Un risultato sconvolgente e stimato per l’Italia che in buona parte si spiega con una caratteristica peculiare della distribuzione del reddito nel nostro paese: i redditi e le aliquote delle coppie bireddito sono mediamente superiori a quelli delle famiglie monoreddito.
In conclusione, il nuovo sistema disincentiverebbe il lavoro femminile, favorirebbe soprattutto le famiglie numerose con i redditi più alti, costerebbe – mantenendo inalterate aliquote e scaglioni – una perdita di gettito di circa il 3 per cento e renderebbe quindi necessario un ritocco all’insù delle aliquote (proprio il contrario di quello che Berlusconi & C: dicono di voler fare). A questo punto non resta che chiedersi, come il Gattopardo: vogliamo cambiare tutto il sistema dell’imposizione sulle persone fisiche perché nulla cambi? Ne vale la pena?
