Stipendi dei manager: il top stroppia

Paolo Forcellini

Si è fatto un gran parlare in questi giorni dei favolosi compensi di Sergio Marchionne: in 79 mesi al vertice del gruppo Fiat ha portato a casa 255,5 milioni, secondo i calcoli di Massimo Mucchetti sul “Corriere”. Ripartita in base agli anni di impiego, la somma equivale alle retribuzioni di oltre mille dipendenti Fiat a paga media. Una sperequazione aberrante, inammissibile, che grida vendetta, hanno menato scandalo in molti commentando quei dati. A queste voci indignate si potrebbe bogartianamente rispondere: “E’ il mercato, bellezza. E tu non ci puoi fare niente”. Quando Marchionne è stato chiamato al vertice Fiat, nel 2004, le azioni del gruppo torinese valevano meno di cinque euro (oggi più del triplo), le banche creditrici stavano divenendo, loro malgrado, il primo azionista, i bilanci erano in profondo rosso, profitto era una parola ormai bandita dal dizionario del Lingotto (nel 2007 gli utili hanno superato i due miliardi). Obiettano le anime belle dei critici: non è solo una questione generale di equità, il manager non ha meritato quelle sontuosissime prebende perché la quota Fiat sul mercato automobilistico europeo è diminuita e, finiti gli incentivi per la rottamazione, in Italia si sta manifestando un crollo delle vendite di serie proporzioni, a beneficio dei principali concorrenti. Facile replicare che le attività in cui opera il gruppo sono molte e la produzione di auto è solo un caso particolare, quasi una penosa anomalia che il top manager sta ora cercando di rimettere in carreggiata.

Ma pare più interessante cogliere l’occasione del “caso Marchionne” per porre sul tappeto questioni più generali sul tema delle remunerazioni manageriali, sempre più oggetto di ricorrenti polemiche, e non solo in Italia. Lo testimonia, da ultima, la “guerra dei bonus” scoppiata in Gran Bretagna fra banchieri e membri del Parlamento dopo che i primi, reduci dai collassi bancari degli ultimi anni e sovente salvati da abbondanti iniezioni di denaro pubblico, hanno stabilito di assegnarsi nel 2011, nel loro insieme, bonus per sette miliardi di sterline. Persino l’ad della Royal Bank of Scotland, ripescata in extremis dallo Stato dopo che si era manifestato un “buco” enorme, a crisi appena tamponata si appresta a ricevere una retribuzione annua di 6,8 milioni di sterline, di cui 2,5 come “extra”. E’ evidente che il “caso Marchionne” è di altro segno: la Fiat è tornata a fare sostanziosi utili e il manager ha chiaramente detto che non vuole sostegni pubblici (a parte la cassa integrazione, che non è poco). C’è quindi da chiedersi, innanzitutto, che cosa vorrebbero concretamente fare, in tutti i casi simili a quello del manager italo-canadese, i paladini di una maggiore equità retributiva. Fissare un tetto alle retribuzioni più alte? Aumentare le già esose aliquote fiscali sui redditi più elevati? E fino a che punto? Nostalgie sovietiche a parte, non si può dimenticare che stiamo parlando di manager operanti su un mercato globalizzato per aziende private che fissano i compensi a discrezione della proprietà ma soprattutto avendo come riferimento il mercato internazionale del top management.

Una questione invece non di lana caprina che il “caso Marchionne” riporta all’ordine del giorno è quella del meccanismo delle stock option, alla base di buona parte dello strabiliante tesoretto accumulato dal capoazienda in pullover blu, così come di quelli di molti suoi colleghi in tutto il mondo. E’ evidente che utilizzare troppo largamente questa forma di compenso induce distorsioni nella gestione delle imprese: i dirigenti finiscono per essere più interessati alle quotazioni di Borsa dei titoli dei gruppi che dirigono che alle loro prestazioni produttive, due indici che possono divaricarsi anche di molto. Meno dannosi sono gli incentivi (bonus) legati ai risultati, anche se pure questi possono favorire politiche più attente alle performances di breve periodo che a quelle di medio e lungo termine.

Ma fondamentale, per una gestione accorta di strumenti come le stock option e i bonus, è l’assetto proprietario dell’impresa. Tra i grandi gruppi privati vanno diminuendo quelli che hanno un indiscusso azionista di riferimento. Ne consegue che sempre più spesso manca una figura che, da un lato, sia fortemente interessata e in grado di imporre una politica retributiva del top management che non danneggi l’azienda e nemmeno la proprietà e che, d’altro canto, favorisca una gestione dell’impresa orientata alla crescita sul medio-lungo periodo piuttosto che al “mordi e fuggi”. Con l’aumentare delle dimensioni medie delle spa, in particolare nel campo finanziario, cresce rapidamente anche il numero delle “public company”, società con azionariato molto frazionato, dove si realizza quella separazione della proprietà dal controllo che è oggetti di studi sociologici da almeno un secolo ma che solo oggi sta diventando la caratteristica dominante dell’assetto societario. In queste situazioni il management ha ampie possibilità di fissarsi da sé livelli retributivi vertiginosi e scollegati dai risultati aziendali di lungo periodo. Gli esempi più clamorosi li abbiamo avuti nell’ultimo triennio: dagli Stati Uniti all’Irlanda, dall’Olanda alla Spagna, molte aziende di credito sono cadute in una crisi profonda, non tramutatasi in crack solo per l’intervento pubblico, mentre i loro top manager continuavano a distribuirsi bonus milionari.

In alcuni casi, inoltre, l’azionista di riferimento esiste ancora ma controlla l’impresa con una percentuale molto bassa del capitale sociale, attraverso una cascata di scatole cinesi: in quest’ultima evenienza l’azionista principe può essere assai più interessato alla sua retribuzione e ai suoi sardanapalici fringe benefits che ai dividendi e/o alla crescita dell’azienda di cui in realtà possiede solo un’infima frazione. Marco Tronchetti Provera è stato un esempio di azionista di riferimento, contemporaneamente di Pirelli e Telecom, con quote di capitale da prefisso telefonico in entrambi i gruppi: nel 2000, quando vendette agli americani di Optical Technologies le attività di cavi per tlc della Pirelli, facendo un ottimo affare, si premiò incassando personalmente circa 450 miliardi di vecchie lire e destinandone altrettanti ai due manager a lui più vicini; in quanto capo di Telecom, inoltre, era il terzo manager più pagato d’Italia. In conclusione, si pone con urgenza la necessità di limitare le “bolle” più clamorose nel campo delle retribuzioni manageriali, senza cadere in un dirigismo fuori dalla realtà. Innanzitutto si tratta ovviamente di distinguere tra compensi dei manager pubblici e di quelli privati. Per i primi si potranno fissare limiti massimi con opportuni criteri che comunque tengano conto che anche queste retribuzioni debbono essere competitive e legate ai risultati. In secondo luogo, per le remunerazioni private, si può pensare di vietare per legge che superino un multiplo da definire degli stipendi medi quando i bilanci siano in perdita e comunque di fissare un tetto ai bonus percentualmente collegato ai profitti. Particolari garanzie, ad esempio tramite appositi comitati realmente indipendenti per la vigilanza sui compensi al top, dovrebbero inoltre essere studiate per le “public company”.

Alla vigilia di Natale, nella generale disattenzione, il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto il quale stabilisce, in esecuzione delle “raccomandazioni” Ue, che le politiche retributive dei manager delle società quotate dovranno essere annualmente sottoposte all’assemblea degli azionisti e, in particolare, le appositre relazioni dovranno “evidenziare la coerenza della politica di remunerazione con il perseguimento degli interessi di lungo periodo della società e con la politica di gestione del rischio”. Un passo nella giusta direzione? Molto piccolo, per la verità, poiché i giudizi delle assemblee non saranno comunque vincolanti per i consigli d’amministrazione dove spesso ormai i manager non proprietari la fanno “da padroni”. Ma pur sempre meglio di niente, un buon punto di partenza: almeno s’avanza un po’ di trasparenza.

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