Tv: digitale non fa rima con plurale

(foto Lapresse)

Il flop del digitale terrestre non è solo quello tecnico di cui parla la bella inchiesta pubblicata oggi da Repubblica. Certo, quando spariscono interi canali Rai i cittadini che oltre al canone hanno pagato pure un decoder non la prendono bene.

Mi è capitato di vederlo da vicino qualche settimana fa, un venerdi sera, nella sala del Municipio di Portogruaro. Centinaia di cittadini inferociti per una semplice ragione: dopo il passaggio al digitale in tutta la parte orientale della provincia di Venezia (oltre cinquantamila residenti) sono spariti i canali Rai. E non è un problema di antenne o di decoder (come ha sostenuto un assessore regionale leghista, costretto ad abbandonare l’assemblea), ma di frequenze. Oltre a questi casi più gravi, ci sono poi le zone in cui il segnale digitale è debole o interferito, e ci sono troppi disagi, specie per le persone anziane e sole, legati alla necessità di frequenti interventi di sintonizzazione. Insomma, per un buon 15-20% degli italiani passati al digitale terrestre oltre alla spesa sopportata per decoder o nuovi apparecchi c’è anche la beffa di non riuscire più a vedere, per un motivo o per l’altro, i propri canali preferiti.

Ma il fallimento più grave riguarda la promessa di apertura del mercato e di moltiplicazione del pluralismo. Quella promessa fu utilizzata per aggirare le pronunce della Corte Costituzionale che, lungo tutti gli anni Novanta e ancora nel 2002, in nome del pluralismo “esterno” (più editori in campo) imponevano a Mediaset di rinunciare a una sua rete analogica e a Rai di togliere la pubblicità da Rai Tre. Il 23 dicembre del 2003 con un decreto del Governo Berlusconi –e l’anno dopo con la legge Gasparri- la decisione della Corte fu aggirata appunto invocando l’imminente avvento del digitale terrestre. La realtà ha dimostrato che l’avvento del digitale terrestre non era affatto imminente e comunque non avrebbe fatto alcun miracolo.

Per aggirare la Corte Costituzionale si disse che lo switch off sarebbe arrivato nel 2006, e solo con il Governo Prodi spostammo la data al 2012 (e si è visto che lo spostamento era giusto) e riproponemmo un limite di legge sia per le reti analogiche che per la pubblicità. Sappiamo che quella proposta finì con la fine anticipata del Governo Prodi. Ma il problema resta attuale.

Il digitale terrestre, infatti, non ha diminuito in modo rilevante i livelli di concentrazione denunciati dalla giurisprudenza costituzionale. C’è stata una moltiplicazione di canali, ma non di editori: l’unico nuovo ingresso importante è arrivato dal satellite. E se Rai e Mediaset invece di sei canali ne hanno 30 non è detto che questo migliori il “pluralismo esterno” invocato dalla Corte. Quanto alla pubblicità, la tv continua a farla da padrona come in nessun altro Paese; e nella tv Mediaset e Rai continuano a raccogliere il 90% del totale.

Sette anni dopo essere stata aggirata con il miracolo del digitale terrestre, per la Corte Costituzionale torna di attualità il dossier del pluralismo televisivo.

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