Pareggio di bilancio in Costituzione: non giocate con l’art. 81

ROMA – Introdurre il vincolo al pareggio di bilancio in Costituzione è inutile e dannoso. La Carta sintetizza un equilibrio complesso di funzioni e poteri ed è preferibile interpretare i principi e le disposizioni, anziché metterci mano con modificazioni esplicite. La fretta e l’emergenza sono poi la via più facile per produrre pasticci, come dimostra il ddl costituzionale licenziato ieri dal consiglio dei ministri. Era già accaduto con la riforma del titolo V nel 2001, che ha intaccato il principio dell’unitarietà del gettito fiscale a fronte del debito pubblico, con l’introduzione del legame tra entrate fiscali e territorio. E sono servite le interpretazioni della Corte Costituzionale per raddrizzare le storture e mantenere la coerenza con i principi fondamentali. Ora è la volta dell’art. 81, con effetti collaterali sugli art. 119 e 53.

Sotto la spinta di eventi straordinari come la crisi finanziaria prende corpo la sindrome del talpone: per colpire l’animale che distruggeva i raccolti alla fine si decise di seppellirlo vivo. Tale è la scelta di stabilire un vincolo costituzionale puntuale, (“Il bilancio dello Stato rispetta l’equilibrio delle entrate e delle spese”). Lo stesso vincolo viene esteso, con la modifica dell’art. 119, a tutti gli enti territoriali, la cui autonomia finanziaria di entrata e di spesa viene subordinata al “rispetto dell’equilibrio dei bilanci”. La golden rule, la possibilità cioè di contrarre debiti per finanziare gli investimenti resta ma, contestualmente, sarà necessaria la “definizione di piani di ammortamento” (che andrebbero fatti, non declamati in Costituzione!), nonché rispettati i principi e i criteri stabiliti da una legge che, prevista dal nuovo articolo 53, fisserà ”i vincoli che derivano dall’Unione Europea e le modalità di contenimento del debito delle amministrazioni pubbliche”.

Il sistema viene irrigidito ed ingessato al punto che è necessario introdurre importanti eccezioni (“Non è consentito ricorrere all’indebitamento, se non nelle fasi avverse del ciclo economico nei limiti degli effetti da esso determinati, o per uno stato di necessità che non può essere sostenuto con le ordinarie decisioni di bilancio»). Lo stato di necessità viene dichiarato dalle Camere “in ragione di eventi eccezionali, con voto espresso a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti”. Tutto ciò amplifica le situazioni di crisi e si potranno determinare situazioni di stallo, analoghe a quella registrata negli USA a proposito della recente discussione sull’innalzamento del tetto del debito.

L’approccio è quello del vincolo cartaceo e ragionieristico, con cui si vorrebbe erigere una illusoria barriera alla crescita della spesa. Il debito non va visto esclusivamente come una montagna da ridurre ma, nei limiti della sostenibilità, come scommessa sul futuro, fiducia sulla possibilità di conseguire degli obiettivi, di migliorare. Questo fanno ogni giorno gli imprenditori che si indebitano per le proprie aziende o le famiglie che finanziano gli studi dei propri figli. Una gestione equilibrata della finanza pubblica non ha bisogno, sotto il profilo metodologico, di modifiche costituzionali, ma di altri interventi.

Primo. Ripristinare procedure decisionali di finanza pubblica ordinate e trasparenti. Da circa un decennio ormai, nonostante la riforma della legge di contabilità (legge 196 del 2009), si assiste ad un far west senza regole. Decreti-legge finanziari che si susseguono senza limiti, scoordinati e pasticciati, in cui il decreto successivo modifica ciò che era stato stabilito dal precedente. Senza discussione, schiacciata dalla posizione della fiducia, ormai divenuta una prassi consolidata. Questo modo di procedere genera incertezza, che è la cosa che disturba più di ogni altra i mercati finanziari. La forma è sostanza. Stime trasparenti e coerenti, provvedimenti asciutti e ben motivati, rispetto dei tempi di discussione e approvazione. Questo dovrebbe fare un governo autorevole. Darebbe alle manovre grande efficacia.

Secondo. Dotare il Parlamento di strumenti idonei per verificare le proposte finanziarie del governo. La fase del ciclo della quantificazione degli oneri, attivata all’inizio degli anni novanta, è ormai superata. Il modello maggioritario, il federalismo e l’integrazione europea, richiedono un salto di qualità. Come negli Stati Uniti serve una sorta di CBO (Congressional Budget Office) capace di sviluppare una vera e propria dialettica sulle proposte del governo. Solo dal confronto paritario potranno emergere le ricette più idonee per rispondere ad una situazione in continua evoluzione, uscendo dalla finzione delle clausole di salvaguardia, della richiesta di chiarimenti e del nulla da osservare, che burocratizza il livello attuale della discussione.

Terzo. Il Governo deve avere corsie preferenziali adeguate per veicolare le proposte di finanza pubblica. Si può realizzare facilmente con un po’ di fantasia, intervenendo sui regolamenti parlamentari, nel senso indicato dalla riforma del 2009. Si eviterebbero i decreti-legge, i maxiemendamenti e le fiducie. E i cittadini potrebbero capire cosa si sta facendo.

Sul fondamento economico del pareggio di bilancio sono stati espressi seri dubbi. In una recentissima lettera ad Obama ben 8 premi Nobel per l’economia (KENNETH ARROW, PETER DIAMOND, WILLIAM SHARPE, CHARLES SCHULTZE, ALAN BLINDER, ERIC MASKIN, ROBERT SOLOW, LAURA TYSON) chiedono esplicitamente che “venga respinta qualunque proposta volta ad emendare la Costituzione degli Stati Uniti inserendo un vincolo in materia di pareggio del bilancio”. E molti anni prima il nostro Sergio Steve scriveva che “la regola del pareggio conserva e conserverà un valore pratico finché la maggioranza dei soggetti economici, o categorie importanti di essi, continueranno a considerarla come la legge che dovrebbe ispirare l’attività finanziaria di uno stato ben regolato. ….. E’ però altrettanto ovvio che … questo criterio non può più considerarsi come espressione, generalmente valida, di razionalità della condotta finanziaria. Esso resta basato sopra volubili atteggiamenti che il potere pubblico può prendere in considerazione e influenzare in molti modi, che a un estremo consistono nell’attuare una politica efficace, promuovendo la persuasione che il metro sul quale si può ragionevolmente misurare una politica finanziaria non è il rispetto del vincolo del pareggio, ma la capacità di risolvere adeguatamente i problemi reali; all’altro estremo fornire del disavanzo giustificazioni formali … o emozionali, che possono allentare il freno costituito dalle reazioni del pubblico, anche quando queste sarebbero giustificate obiettivamente da motivi più profondi che il rispetto di una regola formale”.

Il sistema costituzionale vigente già prevede peraltro il vincolo del pareggio. Al margine, attraverso l’art.81 che al IV comma prevede che per ogni nuova spesa è necessario indicare (nel ddl del governo si sostituisce la parola con “provvedere”, ripercorrendo, all’indietro, una discussione già fatta nella Assemblea Costituente) i mezzi per farvi fronte. E a livello complessivo, attraverso il Patto di stabilità e crescita, norma di rango costituzionale, che prevede il pareggio al netto del ciclo economico.

Il presidio dei conti pubblici è in questo modo ampiamente garantito a livello costituzionale. Sta alla politica non sfasciarli con comportamenti elusivi ed opportunisti.

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Warsamé Dini Casali