Quirinale. Renzi parte da – 200. Pd, sinistra “asfaltata” alza la testa

Pd, minoranza “aslfaltata” alza la testa. Renzi ha 200 voti in meno per Quirinale

ROMA – Gli “asfaltati” della minoranza Pd si rimettono in piedi e alzano un ostacolo ingombrante nella corsa del leader-segretario verso il Partito della Nazione che al momento si chiama Partito del Nazareno e ha come fedele alleato Silvio Berlusconi. E se Renzi da Davos ostenta la solita sicurezza (“vogliono fermarci ma non ce la fanno”), nel pomeriggio di mercoledì circa 140 tra deputati e senatori del Pd s’incontrano nella sala Berlignuer alla Camera per dare prova chiara e univoca che “nessuno è stato asfaltato” e che “il premier-segretario non può cambiare la maggioranza politica al governo così come gli pare e piace e come invece sta facendo”.

Renzi deve ripartire da qui, dalla base del suo partito, da questi 140 se non vuole avere responsabilità pesanti per il futuro della sinistra in Italia. “Dovrà lavorare per tenere unito il partito – dice il capogruppo Roberto Speranza mentre lascia la riunione della minoranza a cui ha partecipato nonostante il ruolo di garanzia – e per riuscirci dovrà evitare accordi al ribasso sulla scelta del Capo dello Stato”. Si attende un segnale, “un beau geste” come suggerisce un bersaniano che siede nella squadra di governo e in questi giorni in prima fila nella maratona delle riforme. Un gesto di distensione e di chiarezza proprio sull’unica partita che adesso conta: il prossimo inquilino del Qurinale. Ad esempio, esemplifica Miguel Gotor, “chiedere un incontro con noi e decidere con noi il nome del prossimo Capo dello Stato su cui poi trovare larghe maggioranze fin dalla prima votazione”. Altro che tè e caffè con Berlusconi e Verdini.

Quello iniziato in queste ore è una sorta di conto alla rovescia. Il count down, nell’aria da martedì, parte ufficialmente mercoledì mattina. Mentre Renzi ai microfoni del World economic forum sulle Alpi svizzere bolla come “ininfluente” la minoranza dem, i numeri dell’aula e il combinato disposto di Espositum-Rosatum (i due parlamentari renziani firmatari di due emendamenti protagonisti della giornata) lo smentiscono con una doccia fredda che sprofonda le facce dei renziani in una malcelata preoccupazione che diventa tranquillità esibita. Succede infatti che la legge elettorale, l’Italicum 2.0, è nei fatti già approvata (voto finale previsto martedì) al Senato grazie all’emendamento-truffa del giovane turco Giovanni Esposito che, scrivendo in 40 righe quello che la legge dice in 40 pagine, falcidia 35 mila dei 44 mila emendamenti e porta a legge a un passo dal traguardo. Solo che l’emedamento-truffa passa con i voti di Forza Italia: trenta senatori del Pd votano contro il collega Esposito che ottiene 175 voti e l’approvazione solo grazie a Forza Italia. Che a sua volta perde 17 dei suoi 66 voti (sei sono di Gal). Chissenefrega, è il messaggio neppure tanto subliminale di Renzi, l’importante è andare avanti. Con la legge elettorale e le riforme.

Peccato che mentre al Senato la minoranza dem, che le veline di palazzo Chigi davano morta ancora prima di alzarsi in piedi, si manifesta con nome e cognome anche alla Camera dove oltre cinquanta deputati, tra cui Pierluigi Bersani, non partecipano al voto sulla riforma costituzionale (emendamento Rosato); altrettanto facevano una ventina di deputati azzurri dell’area Fitto.
Fatti due conti si tratta di un blocco compatto di circa 200 voti – 150 voti nella minoranza dem, un’altra cinquantina di Fi che fanno capo a Fitto – che a questo punto rischiano di venire meno al mazzo di Renzi nella partita del Quirinale. Giovedì 29 il Parlamento si riunisce in seduta comune per eleggere il successore di Napolitano. E se i 200 hanno deciso oggi di uscire allo scoperto, si può immaginare fino a che punto questo numero possa crescere nel segreto dell’urna dove Dio vede ma Renzi no.

La partita quindi si sposta. Lascia da parte legge elettorale e riforma costituzionale. E arriva dove s’è sempre saputo che dovesse arrivare: all’elezione del capo dello Stato.
I pallottolieri sono al lavoro da tempo. Più di tutti quello del fedelissimo del premier Luca Lotti. E se già martedì sera i conti non tornavano più per tentare il metodo Cossiga (elezione al primo colpo, quando servono circa 670 voti, i due terzi dell’assemblea, quindi con la più larga condivisione delle forze parlamentari ), mercoledì si comincia a fare i conti anche per la maggioranza necessaria alla quarta votazione (505 voti). Dei 450 voti da cui Renzi era convinto di partire (deputati, senatori, grandi elettori dalle Regioni), al momento ne restano circa 300. A cui vanno aggiunti circa 90 di Forza Italia (130 meno i 40 di Fitto), una settantina di Area popolare (Ncd e Udc), poi qualche decimale di Scelta civica, gruppo Misto, Socialisti ed Autonomie. Insomma: a 505 ci si arriva a fatica.

La riunione della minoranza dem convocata nel pomeriggio a Montecitorio è una scena che fedelissimi renziani come Rosato, Guerini, Carbone, Ermini scrutano con apprensione. L’appuntamento è alle 16 e 30 mentre Berlusconi a palazzo Madama ha appena finito di blindare il patto del Nazareno riducendo Alfano e Ncd e l’Udc di Cesa a mere comparse. L’area popolare, il Ppe italiano, giocherà insieme la partita del Quirinale. Lanciano il nome di Antonio Martino, l’ex ministro degli Esteri tessera n°2 di Forza Italia. “Nessun passo indietro” avverte Cicchitto. Ma non ci crede neppure lui. Ncd è tornata a casa.

Nella sala Berlinguer la minoranza dem arriva alla spicciolata. Si stanno contando. Devono farlo. E vogliono farlo davanti ai bloc notes dei giornalisti. Arrivano tutti, Bersani, Bindi, Cuperlo, Civati, Damiano, Boccia, Fassina, Speranza, Gotor, Chiti, Fornario, i sottosegretari Sesa Amici, Luciano Pizzetti e Filippo Bubbico. Settanta, ottanta, fanno in fretta a riempire la sala che tiene 140 posti. Parla Bersani: “Renzi sa benissimo che sulla legge elettorale c’era una mediazione possibile. Non l’ha voluto fare. Ora spetta a lui dire se si deve ripartire dall’unità del Pd”.

Quasi un ultimatum. Mentre fuori dalla saletta volano stracci. Fino ad umiliarsi. Esposito, il senatore della corrente Giovani turchi una volta bersaniani doc, è l’autore – o l’esecutore – dell’emendamento votato in mattinata che ha chiuso ogni mediazione sulla legge elettorale. In un’intervista ha definito “parassiti” colleghi senatori come Gotor, Mucchetti, Corsini. Sono offese che non si scordano più, anche se poi Esposito – richiamato da Renzi – chiede scusa. E gli altri Giovani turchi aspettano tra i divani di Montecitorio, macerandosi tra un passato che era ieri – con Bersani – e un futuro che non sanno cosa sarà.”Siamo dilaniati” ammette uno di loro.

Ora la prima mossa tocca a Renzi. Deve chiamare Bersani e decidere con lui, soprattutto con lui, il candidato al Colle. Un nome forte, di garanzia, di statura internazionale. Un nome in grado di ricoprire un ruolo delicatissimo – il completamento delle riforme – e di essere garanzia, quindi massima autonomia, per la democrazia. E’ un passaggio stretto. Incerto. Necessario per la sopravvivenza del Pd. Ma Che si scrive in queste ore. E sarà decisa in una settimana.

 

 

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Emiliano Condò