Psicosi e chi la semina facendo mostra di non entrarci FOTO ANSA
Psicosi nuova parolina magica del ponzio pilatismo della comunicazione. Nuova poi neanche tanto, di certo però la parolina più conforme e se stesso che ha trovato il radicato ormai vezzo della comunicazione. Funziona così: dico e titolo che é “psicosi” e così me ne lavo le mani, fuori mi chiamo, esibisco alibi e patente di libera circolazione di irresponsabilità. Dico “psicosi” e poi piazzo, comunico e diffondo per filo e per segno, non disdegnando enfasi ed allarme, quel che sarebbe “psicosi” e cioè alterazione patologica della realtà.
Dico “piscosi”, cioè percezione patologica della realtà e poi piazzo, comunico e diffondo la realtà psicotica, volutamente lasciando incerti e indefiniti, anzi cancellati i confini tra la realtà e la realtà psicoticamente percepita. Dico “psicosi”, cioè che non è realtà e poi dettagliatamente inserisco la realtà psicotica nella cronaca dei fatti quotidiani. Dico “psicosi” e poi con naturalezza ci inzuppo il pane delle cronache con il sugo della percezione patologica della realtà.
Secondo cronache diffuse gli italiani starebbero facendo incetta, anzi razzia di generi alimentari. Qualche cronaca comincia con “non siamo alla tessera annonaria ma quasi…”. Ovviamente ognuna di queste cronache è preceduta dall’avvertenza “psicosi” a formare un singolare percorso informativo: non è vero, ti avverto che non è vero, anzi mi cautelo e riparo dietro l’avvertenza caso mai tu dovessi capire e credere che è vero…Detto questo, ti racconto con piacere e dovizia lo svilupparsi del non reale, ne faccio una cronaca fedele e massiccia…di quello che non c’è. Basta andarci in un supermercato, magari quello sotto casa, per vedere che nel mondo reale non c’è razionamento, lotta per accaparrarsi il cibo che scarseggia o proprio non c’è più.
Ma perché la comunicazione, l’informazione sente l’insopprimibile richiamo a descrivere Milano o Roma qui e oggi con le parole e i concetti adatti ad una Milano quando c’era la peste o ad una Roma quando c’era l’occupazione nazista? Forse sarà una super super super alienazione del produttore dal proprio lavoro: il giornalista copista ricopia e ricopia in modalità alienante fino a perdere cognizione del valore di ciò che produce. Forse una sorta di neo “fordismo” vigente nelle modalità produttive dell’informazione, una catena di montaggio punto qualcosa zero e una spruzzata di marxiana appunto alienazione. Forse, nella migliore delle ipotesi.
O forse, più probabilmente, lavoro a distanza, a troppa e consolidata distanza. Distanza non dalle redazioni, dai luoghi di lavoro. Distanza consolidata e abituale dal reale, anche la propria realtà. Così che non è inconsueto che il giornalista che ha appena comunicato e scritto della “psicosi che svuota gli scaffali” poi non corra a far scorte, se ne guarda bene. Perché ovviamente non ci crede nemmeno lui, ha interiorizzato come normalità che il suo lavoro e si suoi prodotti lavorativi siano altra e diversa cosa dalla vita reale, a partire dalla sua. Sono comunicati, dichiarazioni, agenzie, tweet…Lui, il giornalista riferisce di questi, la vita è un’altra cosa.
O forse, ed è la peggiore, è inconsapevolezza strutturale e programmatica della comunicazione e informazione. La consapevolezza del reale considerata come inessenziale alla realizzazione del prodotto, se non come ingombro. Inconsapevolezza congenita, quasi obbligata nelle veloci modalità produttive e per forza di cosa commisurata ad una distribuzione del prodotto sempre più on time? Alibi, tenue. Tenero, patetico, corporativo più che sindacale. E’ evidente che qui e oggi in Italia non c’è l’assalto ai forni, la carestia imminente, la ressa e rissa e il cibo razionato. Il farlo balenare è figlio di inconsapevolezza non congenita all’informare ma acquisita come licenza furbetta e insieme pigrissima di diffondere balle attribuendole alla “psicosi”. Di certo un’altra psicosi in atto c’è: quella per cui comunicazione e informazione così fatte hanno su quantità e qualità della loro credibilità. Le percepiscono alte e intangibili ed è appunto una percezione patologicamente, psicoticamente distorta del reale.