
Rai, una riforma che Draghi non riuscirà a fare: il 19 luglio scadrà il Cda, anticipare i partiti con la Fondazione
Rai, una riforma che nemmeno Mario Draghi farà, scrive amaro sul Fatto Quotidiano Giovanni Valentini. Fra le varie riforme epocali che Mario Draghi ha annunciato. E quelle che riuscirà a realizzare, ce n’è una che il premier verosimilmente non potrà fare. La riforma promessa da tutti o quasi i governi della Repubblica e rimasta finora lettera morta: quella della Rai.
A dispetto della sua proclamata indipendenza, il nuovo presidente del Consiglio non la farà non per incapacità o cattiva volontà.
Bensì perché non gliela lasceranno fare i partiti che formano la sua variegatamaggioranza e sostengono il suo esecutivo. Per”Mister Bce” sarà una cartina di tornasole. E in caso contrario, sarebbe una grande soddisfazione essere smentiti.
Proprio questa, invece, potrebbe essere teoricamente la condizione propizia per promuovere una “larga intesa” sulla riforma del servizio pubblico radiotelevisivo. Perno dell’intero sistema dell’informazione.
Riforma della Rai: a parole tutti dicono di volerla
Una riforma che in realtà nessuno vuole.
Né il centrodestra imperniato sul partito-azienda di Silvio Berlusconi. Che pure – conflitto d’interessi a parte – potrebbe avere qualcosa da guadagnarne. Né il centrosinistra, inteso come schieramento giallorosso. Che ha già intasato di proposte gli archivi parlamentari.
La partitocrazia preferisce mantenere lo status quo. Cioè l’occupazione dell’azienda e la sua lottizzazione fra reti e testate giornalistiche, direzioni e vicedirezioni, poltrone e poltroncine. Piuttosto che affrancarla dalla doppia sudditanza alla politica e alla pubblicità.
Eppure, fu proprio Carlo Azeglio Ciampi, mentore e predecessore di Draghi, a indirizzare nel 2003 un messaggio alle Camere. Respingendo la famigerata (nel senso di controversa) “legge Gasparri” sul riassetto del sistematelevisivo. Per richiamare i principi fondamentali del pluralismo e della libera concorrenza.
Riforma Rai, l’unica quella pessima di Renzi
Da allora, sono passati quasi vent’anni e non c’è stato praticamente presidente del Consiglio che non abbia annunciato urbi et orbi la riforma della Rai. Da ultimo Giuseppe Conte, affiancato per l’occasione dal presidente della Camera, Roberto Fico, già presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza.
Per la verità, uno solo vi ha messo mano, spostando il controllo del
servizio pubblico dal Parlamento al Governo. E peggiorando così la situazione: l’innominabile Matteo Renzi. Ma sarebbe stato certamente meglio se quella “riformicchia” – come l’abbiamo sempre definita – non fosse stata mai concepita.
Sullastra dadi Draghi, c’è tuttavia una scadenza che il suo Governo non potrà eludere. Ammesso che l’altro Matteo – quello pentito e convertito al neo-europeismo – non stacchi prima la spina. Per andare alle elezioni anticipate, come aveva ripetutamente proclamato negli ultimi tempi.
Il 19 luglio decade il Cda della Rai
La data è quella del 19 luglio prossimo, quando decadrà l’attuale consiglio di amministrazione della Rai. E a meno di ingiustificabili proroghe, magari
motivate dalla necessità di riforme più urgenti, “Mister Bce” sarà costretto a fare i conti con le richieste e le pretese della partitocrazia.
Da qui ad allora, forse il professor Draghi non avrà tempo per rileggere il testo del messaggio di Ciampi. Ma, da ex Direttore generale del Tesoro, ricorderà sicuramente che il “pacchetto” azionario dell’azienda pubblica è ancora in mano al ministero dell’Economia. E quindi del governo. Basterebbe, allora, che decidesse di trasferirlo auna Fondazione autonomae indipendente,
rappresentativa della società italiana nelle sue varie
componenti. Attribuendo a questo organismo il compito di nominare un nuovo Cda non più subalterno alla politica. Draghi ha tutta l’autorità per farlo. E non avrebbe bisogno di chiedere il permesso a nessuno.