Mi chiedo come si sarebbero mossi quei due giganti nel calcio inquinato, malmostoso, avvelenato dei giorni nostri. Fra televisioni voieuristiche, rubriche maliziose, social forum visitati da torme di tifosi (spesso pseudotifosi) allupati, da cronistelli senza cultura calcistica in perenne ricerca dello scoop (che oggi si traduce in scandalo), tanto ignari delle differenze tra il Metodo e il Sistema (la cultura è un optional fastidioso, no?), quanto avidi di rivoltare la vita privata altrui. Trovando purtroppo udienza larga e inconsapevole.
Mi rispondo che Bernardini e Boskov avrebbero padroneggiato da par loro queste miserevoli “gabole”, schivando i trabocchetti dall’alto della loro cultura (erano entrambi laureati, Bernardini in scienze economiche, Boskov in storia e geografia). Svettando sereni al di sopra della palude, rifulgendo come pezzi pregiati di antiquariato. Avrebbero insomma fatto la differenza.
Boskov era arrivato in Italia da calciatore, proprio alla Sampdoria, nell’annata 1961/62, trentenne, col compagno di Nazionale Veselinovic. Era onesto di glorie pedatorie: medaglia d’argento con la Nazionale della Jugoslavia alle Olimpiadi di Helsinki nel 1952; nazionale in due campionati Mondiali (57 presenze complessive con la maglia dei Plavi), giocatore della squadra del resto del Mondo che pareggio (4-4) a Wembley nel 1952 contro l’Inghilterra. Un cnetrocampista completo. Classe e forza fisica. Visione di gioco. Un asso, insomma. Lavventura blucerchiata da calciatore non fu gloriosa. Reduce da una frattura ad una gamba, Boskov restò nell’ombra (13 presenze e un gol in campionato) e a fine stagione traslocò in Svizzera allo Young Boys.
Trascorsero 24 anni prima che si riaffacciasse al balcone blucerchiato, consigliato da Italo Allodi (chi sa chi era? Avanti…) al presidente Paolo Mantovani. Veniva da una esperienza all’Ascoli di Costantino Rozzi (chi lo conosce?). Divenne il principe reggente della Sampdoria. Con il grande presidente e il sagace direttore sportivo Paolo Borea, Boskov andò a formare un terzetto imbattibile.
Al resto provvidero Pagliuca e Mannini, Pari e Pellegrini, Vierchowod e Dossena, Cerezo e Lombardo, Vialli e Mancini. Lo scudetto del 1990/91 fu qualcosa di portentoso, vinto in una città nemica (geneticamente genoana), in declino come era Genova e purtroppo è sempre di più. Stretta fra i colossi che avevano alle spalle metropoli e batterie di giornali agguerritissisme – Inter e Milan, Juve e Napoli, Roma e Lazio – con l’aggiunta dle Parma di Tanzi (e sappiamo come andò a finire iò calcio nella città Ducale – la “piccola” Sampdoria si riscoprì potenza europea.
Uno scudetto, una supercoppa di Lega, una coppa delle Coppe, quattro Coppe Italia. La Coppa con le orecchie, la Coppa dei Campioni, sfuggì per un capello nel ’92, immolata sulla punizione-bomba dell’olandese Ronald Koeman a Wembley, nei tempi supplementari contro il Barcellona. Eppure l’impresa resta scolpita nella storia del calcio.
Un posto di spicco nel Walallah blucerchiato spetta proprio a Boskov, capace di trasformare una banda di talentuosi ragazzi, innamorati del pallone, ma alquanto sventati, in una allegra compagnia di giocolieri, che vincevano divertendosi e divertendo il pubblico. Oggi lo ammette Roberto Mancini che di quel gruppo fu il leader, carismatico e scapestrato. “Eravamo ragazzi, Boskov ci ha trasformati in uomini”, ha dichiarato al Secolo XIX.
La maturazione di quei giovani e la coscienza di potere osare l’impossibile, va in conto alla saggezza imperturbabile di zio Vuja, al suo humour, alla straordinaria capacità di mantenere in equilibrio euforia e sconforto, ambizioni personali e obiettivi collettivi. Alla sua arte sottile nel gestire con elegante nonchalance i malumori dei calciatori, le frizioni dello spogliatoio (avete presente Vierchowod e Pagliuca, Mancini e Vialli?
Chi ha carattere, e loro ne avevano a bizzeffe, di solito ha un pessimo carattere), sostenuto da una società impeccabile nello stile e nella pratica di vita, coscientemente devota alle regole stabilite da Paolo Mantovani, per me il miglior presidente di calcio del secondo dopoguerra. In una parola, una famiglia, come allora si scrisse (qualcuno di malavoglia), in cui Mantovani era il patriarca, la cui autorità era indiscussa, Borea la governante, attenta ad ogni stormir di foglia. E Boskov la padrona di casa, equanime e rigorosa.
Ti sia lieve la terra, Vuja. E grazie per le lezioni che senza dar loro troppo peso mi hai impartito. Lo stile non è acqua. E non sto parlando di calcio.
