GENOVA – Non mi è mai più accaduto, in quarant’anni di carriera giornalistica, di incontrare un allenatore e un uomo (l’uomo viene sempre prima)che assomigliasse davvero a Vujadin Boskov, scomparso domenica 27 aprile alla soglia degli 83 anni. Era ammalato da molti anni, vittima di una malattia (il morbo di Alzheimer) che in lui costituiva un crudelissimo contrappasso.
Il suo humour pungente, mai volgare, lo spirito curioso e allegro, il finisssimo intuito e una inesausta passione per la vita in tutte le sue declinazioni. Tutto annientato da quel velo maligno, steso come un sudario su una mente brillante, ridotta al silenzio e all’oblio di se stessa.
Boskov era morto da tanto tempo, almeno una decina d’anni, quando la malattia aveva devastato la mente e aveva suggerito alla moglie, la splendida, amorevole signora Yelena, di sottrarlo alla curiosità, seppure affettuosa, della gente che lo amava. Si erano ritirati in punta di piedi, basculando tra la villa di Bled e la casa della figlia Alexandra, sul lungolago di Ginevra. Con puntate sempre più rare a Nervi, dove Boskov, terminata la carriera, si era rifugiato. Un bell’appartamento con vista sui campi da tennis dei circolo “Le Palme”.
Il tennis, una delle passioni di Boskov, sportivo vero. Io stesso ho incrociato molte volte la racchetta con lui, sulla terra rossa (ora sostituita da un fondo sintetico) delle “Palme”. Nel tepore di quell’angolo di riviera incistato all’estremità orientale della città di Genova. Un villaggio, Nervi, dove tutti si conoscono e ancora dai vecchi si sente pronunciare l’aspro dialetto di Portoria, nella versione di levante. Boskov si era ambientato alla perfezione. Da pensionato, poteva finalmente godersi la vita in pieno relax. E dedicarsi allo sport preferito.
Dopo il calcio, s’intende. Il tennis fu per me un modo per avvicinarlo ancor più, capirne l’intimità profonda dello spirito, coglierne tutte le sfumature e vi assicuro che potrei scriverci un libro. Con il mio maestro, collega in giornalismo e amico carisismo, Piero Sessarego e un suo partner, Boskov e il sottoscritto formavamo doppi agguerriti, sotto il solo nerviese. In palio il caffé o l’aperitivo e tanto bastava, naturalmente.
Che tempi! Mi era accaduto di cimentarmi con un altro grande del calcio, Fulvio Bernardini. Anche lui come Boskov appassionato di tennis. Il terreno delle sfide con il Profeta (così lo avevamo soprannonimato) erano i campi in terra rossa di Bogliasco, quartier generale della Sampdoria. Bernardini ci era tornato settantenne, come direttroe sportivo e padre putativo di allenatori dei quali non è rimasta traccia. Ma si era in serie B, uno dei periodi più bui della società. Bernaridni la Sampdoria l’aveva già allenata sul finire degli anni Sessanta.
Conquistando salvezze risicate ma benedette dal bel calcio che il profeta esigeva: Come Boskov, del resto. Due esteti, prima che allenatori. Dal pulpito del suo immenso carisma, Bernardini dispensava perle di saggezza e massime di vita vissuta. Un personaggio immenso. Pendevammo dalle sue labbra. Ogni parola era una scudisciata. Ogni frase una sentenza. Sul court le gambe non gli consentivano più di muoversi come ai tempi in cui affrontava il grande Eraldo Monzeglio, suo compagno in nazionale e nella Roma testaccina. Nonché maestro dei figli del duce.
A Bogliasco Bernardini si piazzava sotto rete e tutte le palle che entravano nel raggio di azione della racchetta erano sue. Ricordo bene le sfide all’ultimo sangue con Sessarego, il compianto amico e collega Giorgio Adriani, il Profeta, a coppie interscambiabili. Bernardini mi chiamava lo spadaccino per lo stile non ortodosso con il quale brandivo la racchetta. Era la fine degli anni Settanta e io, giovane cronista sportivo al seguito della Sampdoria per la Gazzetta dello Sport, toccavo il cielo con un dito a ritrovarmi accanto a quel monumento vivente.
Una quindicina d’anni più tardi mi accostai al tennista Boskov e mi accorsi quanto quei due personaggi si assomigliassero, dentro il recinto del pallone ma anche e soprattutto fuori dalle palizzate ristrette dello sport nazionale. Smagato, alieno dalla retorica, sentenzioso e sempre pronto a riconoscere i meriti dell’avversario il dottor Bernardini. Ironico, sottile, intuitivo, allegro Boskov. Fini psicologi entrambi, tra i pochi nel mondo del calcio, a saper valutare con precisione la psicologia dei giocatori e a fabbricarne le chiavi per spalancarla al dialogo, al confronto.
Mi chiedo come si sarebbero mossi quei due giganti nel calcio inquinato, malmostoso, avvelenato dei giorni nostri. Fra televisioni voieuristiche, rubriche maliziose, social forum visitati da torme di tifosi (spesso pseudotifosi) allupati, da cronistelli senza cultura calcistica in perenne ricerca dello scoop (che oggi si traduce in scandalo), tanto ignari delle differenze tra il Metodo e il Sistema (la cultura è un optional fastidioso, no?), quanto avidi di rivoltare la vita privata altrui. Trovando purtroppo udienza larga e inconsapevole.
Mi rispondo che Bernardini e Boskov avrebbero padroneggiato da par loro queste miserevoli “gabole”, schivando i trabocchetti dall’alto della loro cultura (erano entrambi laureati, Bernardini in scienze economiche, Boskov in storia e geografia). Svettando sereni al di sopra della palude, rifulgendo come pezzi pregiati di antiquariato. Avrebbero insomma fatto la differenza.
Boskov era arrivato in Italia da calciatore, proprio alla Sampdoria, nell’annata 1961/62, trentenne, col compagno di Nazionale Veselinovic. Era onesto di glorie pedatorie: medaglia d’argento con la Nazionale della Jugoslavia alle Olimpiadi di Helsinki nel 1952; nazionale in due campionati Mondiali (57 presenze complessive con la maglia dei Plavi), giocatore della squadra del resto del Mondo che pareggio (4-4) a Wembley nel 1952 contro l’Inghilterra. Un cnetrocampista completo. Classe e forza fisica. Visione di gioco. Un asso, insomma. Lavventura blucerchiata da calciatore non fu gloriosa. Reduce da una frattura ad una gamba, Boskov restò nell’ombra (13 presenze e un gol in campionato) e a fine stagione traslocò in Svizzera allo Young Boys.
Trascorsero 24 anni prima che si riaffacciasse al balcone blucerchiato, consigliato da Italo Allodi (chi sa chi era? Avanti…) al presidente Paolo Mantovani. Veniva da una esperienza all’Ascoli di Costantino Rozzi (chi lo conosce?). Divenne il principe reggente della Sampdoria. Con il grande presidente e il sagace direttore sportivo Paolo Borea, Boskov andò a formare un terzetto imbattibile.
Al resto provvidero Pagliuca e Mannini, Pari e Pellegrini, Vierchowod e Dossena, Cerezo e Lombardo, Vialli e Mancini. Lo scudetto del 1990/91 fu qualcosa di portentoso, vinto in una città nemica (geneticamente genoana), in declino come era Genova e purtroppo è sempre di più. Stretta fra i colossi che avevano alle spalle metropoli e batterie di giornali agguerritissisme – Inter e Milan, Juve e Napoli, Roma e Lazio – con l’aggiunta dle Parma di Tanzi (e sappiamo come andò a finire iò calcio nella città Ducale – la “piccola” Sampdoria si riscoprì potenza europea.
Uno scudetto, una supercoppa di Lega, una coppa delle Coppe, quattro Coppe Italia. La Coppa con le orecchie, la Coppa dei Campioni, sfuggì per un capello nel ’92, immolata sulla punizione-bomba dell’olandese Ronald Koeman a Wembley, nei tempi supplementari contro il Barcellona. Eppure l’impresa resta scolpita nella storia del calcio.
Un posto di spicco nel Walallah blucerchiato spetta proprio a Boskov, capace di trasformare una banda di talentuosi ragazzi, innamorati del pallone, ma alquanto sventati, in una allegra compagnia di giocolieri, che vincevano divertendosi e divertendo il pubblico. Oggi lo ammette Roberto Mancini che di quel gruppo fu il leader, carismatico e scapestrato. “Eravamo ragazzi, Boskov ci ha trasformati in uomini”, ha dichiarato al Secolo XIX.
La maturazione di quei giovani e la coscienza di potere osare l’impossibile, va in conto alla saggezza imperturbabile di zio Vuja, al suo humour, alla straordinaria capacità di mantenere in equilibrio euforia e sconforto, ambizioni personali e obiettivi collettivi. Alla sua arte sottile nel gestire con elegante nonchalance i malumori dei calciatori, le frizioni dello spogliatoio (avete presente Vierchowod e Pagliuca, Mancini e Vialli?
Chi ha carattere, e loro ne avevano a bizzeffe, di solito ha un pessimo carattere), sostenuto da una società impeccabile nello stile e nella pratica di vita, coscientemente devota alle regole stabilite da Paolo Mantovani, per me il miglior presidente di calcio del secondo dopoguerra. In una parola, una famiglia, come allora si scrisse (qualcuno di malavoglia), in cui Mantovani era il patriarca, la cui autorità era indiscussa, Borea la governante, attenta ad ogni stormir di foglia. E Boskov la padrona di casa, equanime e rigorosa.
Ti sia lieve la terra, Vuja. E grazie per le lezioni che senza dar loro troppo peso mi hai impartito. Lo stile non è acqua. E non sto parlando di calcio.