Repubblica e la Stampa sotto lo stesso ombrello, scrive Giuseppe Turani in questo articolo pubblicato anche su Uomini & Business, quello del Gruppo Espresso, che in pancia tiene, oltre al primo per vendite in edicola (per ora e per poche copie) quotidiano italiano, una serie di quotidiani locali che vanno molto meglio di Repubblica e della Stampa: tutto ciò ha un senso?
La risposta è positiva, da entrambi i lati. Tutte e due i gruppi hanno problemi di tipo economico, nel senso che questi giornali non sono fonti di ricchezza (secondo “Il Foglio”, domenica “l’Espresso” cessa di avere un’esistenza autonoma e diventa supplemento domenicale di “Repubblica”). Ma sono anche passati i tempi in cui i giornali servivano, comunque, per difendere la propria area: ormai non ci sono più aree da presidiare. E quindi bisogna che almeno non perdano soldi.
Ma ci sono anche ragioni più specifiche. Da parte degli Agnelli c’è il fatto che sono sempre meno interessati alla stampa italiana. Ormai il loro è diventato un gruppo multinazionale e quindi, semmai, c’è il desiderio di giocare su quel piano anche con la stampa (e infatti sono entrati nell’Economist).
Dalla parte dei De Benedetti lo scenario è un po’ più complicato, ma nemmeno tanto. I giornali, come si sa, sono sempre stati una passione dell’ Ingegnere. Ai figli sono sempre piaciuti meno e si dice che più volte abbiano fatto pressione perché se ne liberasse. Il futuro dell’impero di carta che ruota intorno a “Repubblica” è quindi legato all’esistenza fisica dell’Ingegnere. Una volta scomparso lui, che ha 80 anni, probabilmente tutto verrebbe liquidato o smantellato. Da qui la necessità di trovare una sistemazione più stabile. E allora infilare i giornali del gruppo dentro una holding più vasta, guidata con saggezza da un uomo di 40 anni, potrebbe essere un’idea corretta.
In questa logica, appaiono più comprensibili l’accelerazione subita dall’uscita di Ezio Mauro e la nomina di Mario Calabresi a direttore di Repubblica. Elkann non intende essere un socio passivo e intende dire la sua nell’evento clou di un giornale, la scelta del direttore. Sono cose che due società quotate in borsa non scrivono, per non doverlo comunicare ufficialmente, ma fra gentiluomini la parola non basta, meglio fare le cose preventivamente, così non c’è spazio a ripensamenti né a pressioni o veti.
È appena il caso di notare che fra i due gruppi in passato ci sono stati momenti molto tempestosi. Su quegli antichi dissidi, però, ormai è scesa molta polvere. E sembra di capire che stanno prevalendo ragionamenti più di tipo economico e concreto. Non sarà domani, forse nemmeno dopodomani, ma questa fusione sembra essere il punto di arrivo delle due avventure editoriali.
Ma i terremoti nella stampa italiana non sono finiti. E’ in arrivo un tornado che riguarda la Rcs e quindi il “Corriere della Sera”. Risulta che buona parte dei soci storici, i più importanti, sono pronti a andarsene alla prima occasione. Hanno già deciso di lasciare gli Agnelli, perché è sempre più difficile spiegare agli investitori stranieri in Fca la ragione per cui una casa automobilistica dal futuro non proprio sereno possieda un sesto di una casa editrice indebitata e in perdita. Sulla linea ci sarebbero anche Tronchetti Provera e tutte le banche.
Al momento non è dato immaginare chi possa prendere il loro posto. Diego Della Valle e Urbano Cairo, che sono già azionisti? Forse, anche se la Rcs sembra essere un boccone un po’ troppo grande per loro.
Con la fusione fra Gruppo Espresso e Itedi, la holding con cui Fiat controlla La Stampa, arriva alla fine un percorso iniziato oltre mezzo secolo fa, nel 1955, che è stato anche un po’ il mio percorso di vita e professionale.
All’inizio degli anni 60 non abitavo ancora a Milano e ero (ma lo scoprii dopo) un “proustiano di provincia”, secondo la definizione corrente dentro L’Espresso. Così erano definiti i (pochi) lettori di allora: persone abbastanza colte, ma che stavano lontano dai centri del potere e che dall’Espresso si attendevano una volta alla settimana notizie, polemiche, eventi culturali.
Ricordo che da noi il giornale arrivava con il secondo giro del distributore, cioè verso le dieci di mattina, e di solito i “proustiani” si trovavano davanti all’edicola in attesa dell’arrivo del loro foglio preferito.
A quell’epoca l’Espresso era ancora formato quotidiano,cosa molto insolita per un settimanale, non vendeva molte copie, ma era considerato una sorta di accademia del giornalismo. E in effetti c’erano ottimi giornalisti e collaboratori ancora più eccellenti.
In più, in mezzo al conformismo della stampa italiana (anni 60), l’Espresso era davvero una specie di naviglio corsaro, capace di avviare inchieste impensabili per altri giornali: Capitale corrotta, nazione infetta, ad esempio. Ma anche quelle sulle sofisticazioni alimentari, e così via.
Per finire, aveva una posizione politica radical-socialista (ma non nemica del Pci) che sembrava fatta su misura per noi ragazzi di provincia, che però volevamo sapere e capire.
Una decina di anni dopo la sorte mi porta dentro l’Espresso, nei mitici locali di via Po a Roma. E, anche dall’interno, era un naviglio veramente corsaro. Piccola azienda, decisioni rapide, scarsa considerazione del ceto politico (con qualche eccezione) e anche di quello imprenditoriale, per la verità.
L’insieme dei redattori era di varia provenienza politica e professionale, ma alla fine di gioco di squadra era abbastanza compatto e uniforme. Imperava, perché ne era il proprietario, il principe Carlo Caracciolo, cognato dell’avvocato Agnelli. Un personaggio straordinario. In più di un’occasione si era sparsa la voce che non c’erano i soldi per gli stipendi, ma alla fine il Principe riusciva sempre a rimediare. Mai messo, da parte sua, un freno alla redazione o cercato di influire. Anzi, più gli articoli erano cattivi e scomodi, più lui si divertiva.
Il primo cambiamento, da naviglio corsaro a settimanale quasi standard, avviene con la trasformazione dal formato quotidiano a quello usuale per i settimanali. All’interno, grande dibattito, naturalmente, perché quasi tutti erano affezionati al formato grande e alla sua unicità.
Ma alla fine si decide per la trasformazione perché quello ormai era diventato il mercato. Gli articoli diventano più numerosi e più corti, e quindi serve una maggior organizzazione. Gli sforzi, però, per rimanere un giornale ”speciale” non cessano. Insomma, formato standard, ma sempre scomodi potrebbe essere lo slogan di quegli anni.
Negli anni 70, Scalfari che aveva lasciato la direzione dell’Espresso, per andare a fare il deputato, conclude la sua esperienza politica, e torna al giornalismo e all’Espresso si aggiunge il supplemento economia e finanza (ancora nel formato grande). Una redazione a Milano con pochissime persone, ma che riuscirà a cambiare un po’ tutta l’informazione economica, cominciando a spiegare chi erano i personaggi (e le trame) del potere economico.
Sempre all’inizio degli anni 70, prima della nascita di Repubblica, c’è un episodio che forse non tutti conoscono o ricordano, ma che dà la misura di quale pasta fosse quel foglio ancora un po’ corsaro. Il giornale dava molto fastidio a Fanfani, che in quel momento era l’uomo forte della Dc. Fanfani sopporta per un po’, poi perde davvero la pazienza e si muove.
Il risultato si vede quasi subito. Si fa vivo Umberto Agnelli e dice: Fanfani non vi sopporta più, noi siamo qui per comprare tutta la baracca, fate voi il prezzo. E lo dice al principe Caracciolo, suo parente peraltro. La reazione dell’Espresso è immediata: tuti si mettono a telefonare a tutti gli amici che hanno: nei sindacati, nelle aziende, nella politica. I sindacalisti (mai trattati troppo bene dal giornale) si fanno sentire addirittura pubblicamente e alla fine l’offensiva di Fanfani viene bloccata, anche perché credo che l’Avvocato Agnelli (il vero patron di casa Fiat) non ne sia mai stato entusiasta. Gli piacevano troppo i giornali per dare una mano a soffocarne uno.
Però qualcosa Gianni Agnelli dovette fare nel 1975per tacitare Fanfani e la Dc: separarsi dal cognato, con il quale aveva messo su una holding editoriale e aveva iniziato a rastrellare giornali (Gazzetta dello Sport, Piccolo di Trieste, Alto Adige di Bolzano) e case editrici (Fabbri, Bompiani, Adelfi); costringere il cognato a vendere ai Rizzoli i quotidiani; vendere ai Rizzoli la sua quota di un terzo del Corriere della Sera; costringere il fratello Umberto Agnelli a diventare senatore della Dc nelle elezioni del 1976.
Rimanere dei corsari non era facile. Si facevano degli sforzi, ma ormai l’Espresso era una realtà imprenditoriale importante.
Scalfari, nei primi anni 70, è a Milano due o tre giorni a settimana per fare il supplemento economico. Abita in un residence in piazza Santo Stefano e spesso si va a mangiare in un ristorante davanti alla Statale. E è lì, ai tavolini di quel ristorante, che nasce l’idea di fare Repubblica, un quotidiano. E è sempre lì, che vengono conclusi i primi acquisti importanti, cioè i primi passaggi di grandi firme dai loro giornali alla non ancora nata Repubblica. Poi il giornale avrà la sua sede principale a Roma, ma in realtà è nato a Milano, fra una pausa al ristorante, un’assemblea alla Statale, e qualche noioso convegno economico. Allora non si chiamava ancora Repubblica (anzi, non aveva proprio un nome, era solo un’idea). Di sicuro, agli inizi, c’era solo che sarebbe stato diretto da Scalfari. Mancava ancora la gente e, soprattutto, mancavano i soldi.
Anche il quotidiano, comunque, nasce e è, per molti anni, un foglio corsaro. Spregiudicato, aggressivo, intelligente piomba in mezzo alla stampa quotidiana un po’ grigia di allora come una grande novità. Si raccoglie il consueto pubblico dei “proustiani di provincia”, ma arrivano anche molti lettori di sinistra che di fatto non avevano più un giornale di riferimento.
Intanto Caracciolo colleziona giornali delle piccole città italiane, cosa in cui crede molto. E comincia a nascere il piccolo impero editoriale.
Difficile, adesso, dire quando Repubblica cessa di essere una nave corsara e diventa una grande realtà imprenditoriale (al punto da mangiarsi La Stampa di Torino, sempre che poi alla fine, come ho spiegato sopra, non accada il contrario). Probabilmente già una ventina di anni fa, quando si assesta nelle vendite e nei fatturati, e diventa il concorrente numero uno del “Corriere della Sera”, fino a allora il più importante quotidiano italiano.
Da allora è un grande giornale, sempre abbastanza sbarazzino, ma non più corsaro. La vendita poi a Carlo De Benedetti sembra sancire definitivamente questa trasformazione. Repubblica non è più di due outsider come Scalfari e Caracciolo, ma di un imprenditore con vari interessi. Tutto diventa più manageriale e preciso. E l’intero gruppo finisce addirittura quotato in Borsa.
Ieri, l’ammaina bandiera dei corsari. Il gruppo Espresso rileva la Stampa degli Agnelli (che intanto lasciano il “Corriere”), confermandosi come un realtà forte del scena politica e giornalistica italiana. Insomma, il soggetto vincente.