ROMA – Il gigante cinese affamato mette paura. Pechino da un lato fa incetta di petrolio, preoccupata dai venti di guerra che spirano in medio oriente, e dall’altro si tiene stretta le sue “terre rare” frenandone l’esportazione. Risultato: l’oro nero tocca costi record e i gadget high tech che tanto amiamo diventano sempre più cari.
In Italia la benzina, divenuta quasi un bene di lusso, sfonda ogni giorno un nuovo record, e persino Obama rischia la rielezione proprio a causa del caro greggio. La colpa di questi continui aumenti non è imputabile esclusivamente alla Cina, vero, prima causa sono le turbolenze che agitano il medio oriente, oltre ovviamente speculazioni varie e, nel caso italiano, un’elevata tassazione. Ma proprio l’incertezza che coinvolge l’Iran e il suo petrolio ha spinto Pechino a fare scorta di oro nero. Per la serie non si sa mai. E visto che la popolazione cinese si conta in miliardi (1 miliardo e 350 milioni circa) fare scorte, nel loro caso, vuol dire modificare il mercato planetario.
A febbraio Pechino ha acquistato 5,95 milioni di barili di greggio al giorno, con un aumento del 18,5% rispetto all’anno precedente. Se nell’ultimo trimestre del 2011 poi l’aumento delle scorte cinesi era avvenuto con prudenza, nel 2012 è diventato forsennato: Sinopec ha moltiplicato le importazioni da Riad e acquistato centinaia di petroliere in navigazione da Medio Oriente, Russia e Africa con a bordo greggio imbarcato in gennaio e febbraio. Conseguenza della sete cinese, petrolio più caro per tutti. Dall’Europa agli Stati Uniti, passando per le economie emergenti, se ne sentono le conseguenze ovunque.
E se da noi la conseguenza percepita per prima è l’aumento alla pompa, in America Barack Obama anche su questo tema si sta giocando la rielezione, accusato dagli avversari repubblicani di essere correo dell’aumento della benzina a stelle e strisce avendo fatto sì che gli Usa divenissero eccessivamente dipendenti dalle importazioni di greggio. E ancora più dura sarà per le economie emergenti se la corsa dell’oro nero continuerà. Il costo troppo elevato delle materie prime mette a serio rischio non la politica di questi paesi, ma la loro stessa capacità di crescita.
Il gigante non ha però solo sete, ma anche fame. Fame di “terre rare”, nome sotto cui rientrano 17 metalli fondamentali per le nuove tecnologie. Metalli che servono ad esempio per le batterie dei cellulari, dei computer e delle auto elettriche. Metalli di cui per lo più ignoriamo persino i nomi ma da cui dipendiamo e che utilizziamo continuamente in migliaia di gesti quotidiani. In questo campo, a differenza di quanto avviene col petrolio, Pechino non è costretta a razziare il mercato per paura di trovare domani gli scaffali vuoti, basta che tenga la borsa chiusa.
La Cina è infatti praticamente l’unico produttore sul pianeta di questi metalli, producendo da sola il 90% di queste terre rare. Molto più semplice quindi in questo caso sfamarsi, basta chiudere i rubinetti limitando l’export e i prezzi della materie in questione schizzano alle stelle. Decuplicati nel giro di appena tre anni. E talmente importanti sono questi metalli che il comportamento cinese è riuscito a mettere d’accordo Usa, Europa e Giappone che uniti, per la prima volta nella storia, si sono rivolti al Wto per chiedere sanzioni contro Pechino colpevole, a detta loro, di star falsando il mercato con pratiche commerciali scorrette. Poco potrà fare l’organizzazione del commercio ma il segnale politico è forte e lo stesso presidente Obama ha chiarito alla Cina che così non si può andare avanti.
Il gigante però è troppo forte, assetato e affamato. La sua sete di petrolio non può essere contestata dal resto del mondo che altro non può fare se non stare a guardare i listini lievitare ogni giorno. E la sua fame non potrà essere frenata, anche perché Pechino per l’export col contagocce si giustifica con le difficoltà tecniche e le gravi conseguenze ambientali che l’estrazione delle terre rare porta in dote. “Non possiamo mica deturpare il nostro paese per accontentare i mercati occidentali” la loro spiegazione. L’unica alternativa è quindi quella di trovare fonti alternative. Intanto, la Cina, fa la parte dell’asso piglia tutto.