ROMA – Ieri, a Vienna, è stata presa una decisione che, da sola, rischia di mettere in crisi la politica energetica degli Stati Uniti; è un mezzo salasso per le casse russe, ma Mosca ne è l’artefice perché è, o sembra essere, la sua risposta alle sanzioni a stelle e strisce, insomma dicono sia la “vendetta ucraina” made in Putin. Una decisione che rafforza l’alleanza tra Kuwait, Emirati Arabi, Qatar e Arabia saudita; e rafforza anche la dipendenza dell’Iran da Mosca. La scelta di non tagliare la produzione giornaliera di petrolio mondiale, quindi di di mantenere i prezzi al barile su livelli molto bassi, il gioco sul filo a far stare il barile tra i 60 e gli ottanta dollari. Sotto i 65 lo shale gas americano diventa troppo costoso da estrarre ma sotto gli ottanta una gran parte dei paesi produttori di petrolio non sta in piedi e fa bancarotta.
Un passo indietro: ieri, a Vienna, si sono riuniti i paesi dell’Opec, l’organizzazione di cui fanno parte i principali produttori di petrolio del pianeta. In questa sede l’Arabia Saudita, forte dell’accordo siglato già in precedenza con i citati paesi del Golfo, ma soprattutto dopo aver ottenuto l’avallo di Mosca che dell’Opec non fa parte ma che è comunque uno dei principali paesi produttori al mondo, ha chiesto e ottenuto di non tagliare la produzione di greggio.
Taglio che invece auspicavano l’Iraq, l’Algeria, il Venezuela e la Libia. In verità tra i favorevoli al taglio avrebbe dovuto figurare anche l’Iran, ma il via libera della Russia ottenuto dai sauditi serviva anche a silenziare Teheran. Ma taglio che soprattutto non auspicavano ma agognavano gli Usa.
E la spiegazione delle ragioni del desiderio americano, è anche la motivazione che ha spinto l’Arabia Saudita, storico alleato di Washington, a fare all’America questo sgarbo. Da qualche anno canadesi e soprattutto americani hanno cominciato a tentare di emanciparsi dalla dipendenza dal greggio, e quindi dalla dipendenza da chi il greggio possiede. E sono i due paesi nordamericani arrivati a considerare l’indipendenza energetica un obiettivo quasi alla portata grazie allo shale oil, quel petrolio che si ottiene con la discussa tecnica del fracking. E qui viene il punto. Lo shale oil è conveniente e competitivo solo se il prezzo del greggio rimane al di sopra di una soglia di 60/65 dollari al barile, al di sotto estrarlo smette di essere un affare.
E come ha chiarito per chi non avesse capito il vicepresidente della Lukoil, colosso energetico russo: “La politica Opec porterà al collasso la produzione di shale oil americano”.
La decisione presa ieri a Vienna è quindi al confine dal poter essere considerata storica, e probabilmente lo sarà se verrà confermata nel tempo. Per ora quello che è certo è che la decisone è presa e non verrà ridiscussa prima di giugno.
Nel frattempo Washington sarà probabilmente costretta a correre ai ripari e a varare qualche misura in grado di tenere in vita, in attesa di tempi migliori, lo shale oil ma, intanto, il mancato taglio alla produzione di greggio cambia, di fatto, gli equilibri del pianeta. I prezzi alla pompa però, in Italia, sembrano essere assolutamente impermeabili a questo tipo di notizie. Eppure a quanto risulta la benzina e il gasolio, quelli che dalle pompe in questione vengono venduti, sembrerebbero fatti proprio di petrolio.
Come spiega in modo dettagliato Luigi Grassia su La Stampa, nell’arco del 2014, da gennaio a ieri, il prezzo del Brent, cioè il prezzo cui fa riferimento il mercato europeo, è sceso del 29%. Il prezzo della benzina dello 0.6%.
Tutti gli automobilisti sanno fin troppo bene come, al rialzo dei prezzi del greggio, scattino aumenti al limite del preventivo. Ma anche le compagnie petrolifere hanno le loro ragioni, che Grassia analizza e contesta doviziosamente. In primis il prezzo del petrolio è in dollari e negli ultimi mesi l’euro si è molto indebolito. Vero, ma anche effettuando il cambio, il rapporto non varia molto: greggio -26.2% e benzina sempre -0.6%. Secondo, prima di adeguare i prezzi bisogna consumare le scorte pagate quando il barile era più caro. Vero anche questo, ma il prezzo del greggio è in picchiata da luglio, quante diavolo di scorte ci sono? E terzo, rimane la quotazione Platts, cioè la quotazione non del greggio ma dei carburanti raffinati perché, come sostengono le compagnie petrolifere, è a quello che bisogna guardare. “Le quotazioni Platts – riporta Grassia – sono scese negli ultimi mesi in parallelo con quelle del barile”. Ah. Evidentemente la politica energetica di quel paesuccio che sono gli Stati Uniti d’America è più fragile e sensibile dei nostri distributori.
La benzina in Italia sarà perché è troppo tassata e quindi buona parte del prezzo dipende dalle tasse, sarà perché i costi di distribuzioni italiani sono ovviamente sempre maggiori dei costi di distribuzione di ogni paese europeo, sarà perché…per qualche altro perché. Per questo, questo e quest’altro perché il prezzo della benzina da noi cala un decimo di quanto cala il prezzo del petrolio e sempre con qualche settimana almeno di ritardo. Bene, una sola domanda: perché invece rincara, quando e tutte le volte che rincara, appena 24 ore dopo il rialzo del costo del barile? E perché quando rincara rincarano tutte le componenti del prezzo, anche quelle di raffinazione e distribuzione che dovrebbero essere fisse e comunque non legate al costo della materia prima? Perché con la benzina le auto marciano e con la benzina da sempre in molti ci marciano.