GENOVA – “Alla rivoluzione sulla 2 cavalli” era il titolo di una delicata pellicola che raccontava la rivoluzione dei garofani portoghese. Ma l’Italia 2013 non è il Portogallo 1975 e, da noi, la rivoluzione la si fa meglio in Jaguar. Tutti hanno visto e raccontato come uno dei leader dei cosiddetti Forconi, Danilo Calvani, abbia ieri infilato al termine del comizio la lussuosa vettura. “E’ di un amico”, si è giustificato, “un camionista che mi ha dato un passaggio”. Toppa peggiore del buco, un camionista da Jaguar? E comunque a Calvani quei miliari portoghesi di tanti anni risultano di certo indigesti in quanto democratici. Calvani ha sempre fatto sapere che altri militari godono il suo gradimento, militari che fondino una Stato basato sulla divisa, insomma quella roba lì, il Cile, sempre anni settanta erano. Carro armato e Jaguar, ci stanno, sì insieme ci stanno nella testa del Calvani. E peggio per quei moralisti democratici e comunisti.
Marco Imarisio lo critica sul Corriere della Sera scrivendo che la “crema della società occidentale viaggia in Jaguar e sogna i colonnelli”. Massimo Gramellini su La Stampa lo sfotte chiamandolo il “Forcone Capo…se un esponente della famigerata Kasta, dopo aver arringato le folle contro le tasse del governo affamatore si fosse allontanato dal luogo del comizio sul sedile posteriore di una Jaguar, avrebbe firmato la sua condanna alla lapidazione mediatica. Stormi di pernacchie si sarebbero levati in volo da ogni tinello, l’indignazione avrebbe lubrificato i polpastrelli ai tastieristi dei social network…”. Lui rilascia intervista in cui spara “siamo quattro milioni”, annuncia spedizione su Roma egli scappa anche detto che quando faceva l’imprenditore non pagava i contributi ai suoi dipendenti.
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“Non era mia – ha spiegato Calvani a Corrado Zunino di Repubblica -, non ho intestato nulla. E non era il mio autista, solo un amico che mi ha dato un passaggio. Un camionista”. Stupisce vedere un camionista con la Jaguar, sarà pure usata e quindi di non enorme valore all’acquisto, ma la benzina, il bollo e la gestione tutta non sono comunque proprio economiche. Come stupisce vedere uno dei leader della protesta che in Jaguar sale e con tanto di autista, per quanto improvvisato.
L’abito non fa il monaco, è vero, ma nella nostra società l’immagine è anche parte della sostanza. E l’immagine di un leader in Jaguar mal si sposa con la protesta di lavoratori che scendono in piazza perché non ce la fanno più, messi in ginocchio dalla crisi e, a dir loro, dalle tasse.
Già, le tasse… Dall’intervista rilasciata a Repubblica si apprende anche che Calvani, il Robespierre de’ noantri, le tasse già prima della crisi e della piazza non amava pagarle. E in questo caso la parte sorprendente non è tanto l’evasione, ma il fatto che il forcone la riveli candidamente e spontaneamente: “Sono un contadino in un territorio svuotato, venti anni fa a Latina l’agricoltura era il sessanta per cento del Pil. Un imprenditore riempito di cartelle Equitalia per i contributi previdenziali non versati. E un cittadino che odia i politici”. I contributi previdenziali, questi sconosciuti. Chissà come prenderanno questa rivelazione gli ex dipendenti di Calvani, è facile immaginare non bene.
Ma se due indizi sono un coincidenza, serve il terzo per avere una prova. E il terzo indizio è il rapporto con la politica. “Odiata” da Calvani come lui stesso conferma, anche se in politica si era già lanciato candidandosi a sindaco di Latina. Non venendo eletto.
Ricapitolando quindi uno dei leader dei Forconi infiamma la piazza dei lavoratori “affamati” e poi se ne va sulla Jaguar di un amico camionista; era solito, almeno finché ha avuto un’azienda, non pagare i contributi dei dipendenti e, anche se odia la politica, in politica voleva entrare. Materiale a sufficienza per poter dire che la genuinità del personaggio sia quanto meno discutibile. Tanto è vero che, anche all’interno del movimento stesso, comincia ad affiorare qualche distinguo.
“I veri Forconi si trovano in Sicilia – scrive il Corriere della Sera -, dove la protesta è pacifica”. E a rivendicare la primogenitura è il fondatore e leader del movimento, Mariano Ferro. Che aggiunge: “In una prima fase poteva anche farci piacere essere presi a simbolo dello sciopero, ma adesso la situazione è degenerata”. Ecco, questo è il punto. Sparpagliandosi per l’Italia, l’etichetta è andata incontro a gemellaggi, apparentamenti, contiguità. Più o meno apertamente accettate o rifiutate. Conclude Ferro: “Dietro la nostra sigla c’è un movimento di agricoltori e autotrasportatori che da anni rivendica interventi contro la crisi”. In questo filone di protesta “purtroppo si sono infiltrate frange eversive”.
Tornando alla rivoluzione e a Calvani, “l’amico del Jaguaro” come lo apostrofa Massimo Gramellini, l’idea di rivolgimento sociale che ha nella testa l’ex imprenditore agricolo poco somiglia alla rivoluzione che Robespierre guidò come poco somiglia alla rivoluzione che negli anni ’70 cambiò il Portogallo. Vedrebbe bene un militare, un carabiniere alla guida del Paese Calvani, con i carri armati nelle piazze, magari insieme alle Jaguar. Un qualcosa che sa più di golpe che di rivoluzione, un visione più vicina ad un Pinochet qualsiasi che ad un Guevara e, in questo scenario, la Jaguar non è più così fuori posto.