ROMA – Contributi incassati nel Lazio per le pensioni al 1° gennaio 2008: 24 miliardi e mezzo di euro. Spesi per pagare le pensioni: 25.8. In Piemonte incassati 16.7 e spesi 22.4. Musica simile in quasi tutte le regioni italiane, con qualche eccezione, come la Lombardia, che incassa 48.9 e paga 46.2. A livello nazionale il segno è comunque rosso: 209 incassati e quasi 260 versati. Se la matematica non è un’opinione, è evidente che un sistema siffatto non può reggere.
Lo squilibrio tra entrate e uscite in tema pensioni è figlio di diverse voci e cause, tra cui il progressivo invecchiamento della popolazione che si traduce in più pensionati e meno lavoratori attivi. Ma la ragione principale va ricercata nel sistema retributivo delle pensioni, in vigore sino alla riforma Dini. Sistema che calcolava l’importo mensile della pensione sulla base degli ultimi stipendi percepiti, quelli in genere più alti. Risultato di un simile calcolo era, ed è, una pensione sensibilmente più alta rispetto al monte contributi versati. Nel 1996 la riforma Dini segnò uno spartiacque: fine del retributivo e passaggio al contributivo, in cui l’importo dell’assegno mensile è calcolato sulla base dei contributi versati. Sistema sostenibile, quello del contributivo, ma pensioni più povere.
Ma il contributivo introdotto da Dini vale per i lavoratori che hanno cominciato a lavorare dopo la riforma, i suoi effetti benefici sulle casse dello stato sono quindi ancora lontani da venire, e ha generato due tipi di pensionati: quelli “vecchi”, fortunati e ricchi da una parte, e quelli “nuovi” sfortunati e poveri. Tutti i sacrifici sono stati infatti messi in collo a quelli che allora erano i pensionati di domani, anche in base al principio che i diritti acquisiti non si toccano. Creando però nei fatti un attrito tra generazioni.
Due pesi e due misure quindi. Un lavoratore autonomo che va in pensione oggi prende oltre tre volte e mezzo quello che ha versato durante la vita lavorativa, in termini di contributi. Per l’esattezza, fatto 100 il «montante contributivo», il commerciante o artigiano o contadino prende 346 se uomo, 368 se è donna. Il calcolo, fatto da Michele Belloni e Flavia Coda Moscarola sul sito Lavoce.Info , si applica anche a dipendenti pubblici, dove il rapporto è di due volte e mezzo (268 per gli uomini e 249 per le donne), e i privati dove è quasi due volte (162 per gli uomini e 188 per le donne).
Questo «regalo del retributivo», come lo chiamano i due economisti, non vale per tutti. Vale, appunto, per chi gode del regime previdenziale molto generoso che era in vigore prima della riforma Dini. Per chi ha cominciato a lavorare dopo l’anno della riforma, dal 1996, il «regalo» sparisce: quando andrà in pensione prenderà esattamente quello che avrà dato: fatto 100 prenderà 100. Questo manicheismo tra “fortunati” pre Dini e “sfortunati” post Dini non incarna però proprio il principio d’equità. Comprensibile, allora, che tra le prime riforme in cantiere dell’«agenda Fornero» ci sia l’estensione del considdetto metodo contributivo a tutti, anche ai privilegiati dell’«età dell’oro» pre-Dini.
Tra le due generazioni c’è poi anche una differenza notevole tra quello che c’è scritto sui loro assegni. Con il metodo retributivo pre-Dini le pensioni si calcolavano come detto su una media degli ultimi stipendi, quelli da fine carriera, i più alti probabilmente dell’intera vita lavorativa. Il contributivo, invece, fa una media. Seguendo il ragionamento di una simulazione fatta dai due economisti Tito Boeri e Agar Brugiavini, mettendo a confronto due persone dal profilo lavorativo identico – stessi anni di lavoro e stessa busta paga – chi ha cominciato a lavorare a 23 anni nel 1974 può andare in pensione a 62 e prende il 76% dell’ultimo stipendio, esempio circa 1.340 euro. Chi aveva 23 anni nel 1996 andrà in pensione minimo a 64 anni e prenderà il 71 per cento dell’ultimo stipendio, circa 900 euro.
Equo sarebbe dividere, condividere i sacrifici. E non scaricarli su quelli che verranno. Al di là però di ragionamenti su cosa è giusto ed equo c’è un altro problema, molto più concreto. Il contributivo andrà a regime nel 2030, ma le casse statali non ce la fanno a reggere altri 20 anni di esborso. Oggi solo l’80,1 per cento della spesa pensionistica è coperta dai contributi versati. Il resto, quasi 50 miliardi di euro, li mette lo Stato.
Come ha scritto poi il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, in un saggio per la rivista Industria, «in termini reali negli ultimi trent’anni la spesa per pensioni è cresciuta mediamente del 3 per cento all’anno, contro una crescita del Pil dell’1,7 per cento». E il numero delle pensioni in essere è cresciuto mediamente dell’1,17 per cento mentre la popolazione residente è cresciuta dello 0,21 per cento all’anno».
I sindacati, all’idea di metter mano alle pensioni, si sono subito messi in allarme dicendosi preventivamente contrari. Ci sono però due problemi da risolvere: il primo, tentare di redistribuire l’onere dei sacrifici e, il secondo, quello di porre un argine ad un’emorragia di denaro che l’Italia, volente o nolente, non si può permettere. Se il secondo è il problema più concreto, e la molla che costringerà a metter mano alle pensioni, il primo è in realtà quello più delicato socialmente.
I sindacati che si oppongono all’estensione del contributivo sono specchio di una realtà deformata. I sindacati, come per loro natura, difendono i diritti dei lavoratori e dei pensionati. Non difendono invece chi al mondo del lavoro deve ancora accedere. E i lavoratori che già sanno che avranno la pensione calcolata sulla base dei contributi, sono gli stessi che hanno conosciuto il precariato. La cesura che esiste tra le due generazioni, oltre ai costi concreti, rischia di avere dei costi sociali persino più alti.