Stato moroso perfino con i detenuti, Mesina chiede gli arretrati

Manifesti per Mesina, quando era latitante (Archivio Lapresse)

CAGLIARI – In debito persino con i detenuti. Non c’è solo il famigerato debito pubblico tra le voci segnate in rosso nel bilancio dello Stato, non ci sono solo titoli in scadenza da onorare e i creditori da saldare. Lo Stato Italiano è in debito persino con i carcerati. O meglio, con chi tra i carcerati, all’interno delle mura dei penitenziari, svolge un lavoro. I detenuti lavoratori hanno infatti diritto ad uno stipendio, pagato in parte dallo Stato. Peccato che l’importo di questo stipendio non venga aggiornato dal 1993. Così, alcuni detenuti, hanno deciso di far causa allo stato. E hanno ovviamente vinto, trattandosi di un compenso vecchio di vent’anni evidentemente inadeguato.

A svelare questa storia la vicenda di un detenuto celebre, anzi di un celebre ex bandito: la primula rossa Graziano Mesina, raccontata da La Stampa. Grazianeddu è infatti l’ultimo detenuto lavoratore ad aver fatto causa al ministero della Giustizia per ottenere gli arretrati, secondo lui dovuti, per anni di lavoro sottopagato. Forse il più “famoso” Mesina, ma solo l’ultimo in ordine di tempo ad intentare una simile causa. Prima di lui Giovanni Carta, un altro sardo condannato nel 1993 a ventisei anni di carcere per aver ucciso la moglie e il figlio. In cella faceva il falegname e dopo diciassette anni di reclusione è tornato in libertà. A quel punto ha deciso di rivolgersi ad un avvocato per ottenere i salari arretrati e il giudice gli ha dato ragione, perché l’assegno che l’amministrazione penitenziaria gli passava ogni mese, tra il 2002 e il 2007, non era adeguato allo stipendio che spetterebbe a ogni falegname. La vicenda si è poi conclusa con un accordo: 12mila euro versati a Carta e processo concluso.

Ma anche altri “celebri fuorilegge” hanno intentato lo stesso tipo di causa: i fratelli Fabio e Roberto Savi, i fondatori della “Banda della Uno bianca”. Anche loro si sono rivolti agli avvocati Pierandrea Setzu e Renato Chiesa chiedendo un rimborso per le mansioni che gli sono state affidate dentro il carcere. Per loro come per Mesina tutto lascia supporre che il giudice gli dia ragione.

Tutto questo perché ogni detenuto che lavora in prigione ha diritto agli aumenti salariali stabiliti nei rinnovi contrattuali, secondo la sentenza scritta dai giudici cagliaritani a ottobre 2010. L’amministrazione penitenziaria, così sottolinea la sentenza, deve pagare ai detenuti i due terzi dello stipendio dovuto in base alla mansione. Il calcolo sarebbe quindi affidato a una commissione ministeriale, commissione che però si è riunita l’ultima volta 20 anni fa, nel 1993, quando c’era ancora la lire e quando Berlusconi faceva l’imprenditore per intenderci.

Da allora non è più stata convocata, forse l’avranno dimenticata, e così le mercedi, così si chiama lo stipendio dei detenuti, non sono state adeguate annualmente agli indici di consumo e alle modifiche dei contratti collettivi. Chiaramente dal ’93 ad oggi i salari sono notevolmente cambiati e così lo Stato, cioè noi, non è solo in debito con la Cina e l’Europa, ma anche con i nostri carcerati.

 

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