L’ Italia ha bisogno urgente di un governo che prenda alcune decisioni essenziali per dare un filo di speranza alle famiglie ed alle imprese in gravissima, crescente difficoltà:
1. alleggerimento fiscale,
2. semplificazioni,
3. sblocco dei pagamenti dovuti ai fornitori delle pubbliche amministrazioni.
Misure concrete, è stato scritto,
che facciano percepire all’opinione pubblica che è in atto un cambiamento, che le forze politiche, uscite traumatizzate dalle elezioni del 24-25 febbraio, hanno capito la lezione.
Destra e sinistra devono capire che non è il momento degli egoismi di partito, che, tra l’altro, non producono nulla, perché, è certo, gli italiani, comunque schierati, sarebbero più contenti, tranne le ali estreme, di un accordo, perfino sottobanco, l’inciucio, come lo chiamano, piuttosto che continuare in questa incertezza improduttiva di effetti positivi, ma anzi foriera di gravi pericoli.
Finalmente abbiamo un presidente del Senato, Piero Grasso, e una presidentessa della Camera, Laura Boldrini. Ma la vicenda era partita in modo affastellato e confuso e il termine “fumata nera”, sull’esempio del Conclave, rappresentava bene anche l’umore della gente, che vede nero, è il caso di dirlo, perché non si intravede una strategia, non solo per dare al Parlamento un assetto che faccia intravedere una maggioranza di governo, ma per assicurare un governo al Paese.
Occorre, dunque, un accordo forte e, potenzialmente, di legislatura o comunque di medio periodo.
Nel 1852, nel Regno di Sardegna, che continuava ad esprimere la più consistente forza politica risorgimentale, l’accordo segreto, che oggi chiameremmo “inciucio” fu definito ” connubio”, secondo le parole ironiche del deputato di destra Thaon di Revel al Parlamento subalpino. Connubio evoca un matrimonio e nell’occasione indicò l’unione di due forze politiche opposte, accordatesi segretamente allo scopo di formare insieme una nuova maggioranza e un nuovo governo.
In quell’occasione il conte di Cavour, ministro delle Finanze del Governo presieduto da Massimo d’Azeglio, non ne condivideva la linea politica sempre più vicina alla destra estrema di Menabrea, di Balbo e di Revel. Così l’ambizioso, giovane quarantaduenne esponente dell’area liberale, autentico astro nascente della politica piemontese, stimato a Londra, dove era considerato il miglior ministro delle Finanze d’Europa, ammirato dalle Cancellerie più importanti del Continente, strinse un patto segreto con la Sinistra di Urbano Rattazzi, i suoi avversari.
L’accordo, come spesso avviene in politica, perché i leader si tengono sempre una mossa di riserva, fu definito da uomini di fiducia dei due protagonisti, l’avvocato Castelli per Cavour e il deputato Buffa per Rattazzi, i quali si incontrarono il 30 gennaio 1852 in casa del primo, lontani da occhi indiscreti.
E fu l’accordo, il “connubio”, appunto, dal quale Cavour e Rattazzi calcolavano di trarre importanti vantaggi: la poltrona di Presidente del consiglio per il primo, la vicepresidenza della Camera per il secondo.
Il patto, sul piano politico, prevedeva la “separazione della estrema e confluenza del centro destro e del centro sinistro su un programma di risoluta difesa delle istituzioni…”, come scrive Rosario Romeo, il grande storico di Cavour.
L’accordo colse tutti di sorpresa, ma dovettero prendere atto della nuova maggioranza per un Primo ministro moderato, il liberale Cavour, “in nome del supremo interesse del Paese”, “per il progresso civile e democatico”, per “scongiurare i pericoli che minacciavano la pacifica convivenza”. Le formule delle quali il “politichese”, allora come oggi, si serve per spiegare e giustificare.
E fu un governo di “unione nazionale”, formula per le stagioni difficili. Come questa che vive il Paese. Chi può essere, oggi, l’erede di Rattazzi, chi di Cavour?
Riuscirà Pierluigi Bersani? E a destra, si fa per dire, imbottita com’è di ex socialisti craxiani, chi farà il liberale? Quali i plenipotenziari delle due parti capaci di un accordo forte?
Non si intravvedono. Perché a monte mancano gli eredi di un Cavour o di un Rattazzi.
Tuttavia questa è la strada, come insegna la storia. Non solamente nel 1852. Perché al “connubio”, un po’ di anni dopo, fece seguito il “trasformismo”, protagonista Agostino Depretis, Primo ministro dal marzo 1876, quando la Sinistra, di cui era il capo, aveva per la prima volta conquistato il governo, togliendolo alla Destra storica. Nel 1882 utilizzò i voti di gran parte della Destra in cambio di vantaggi concreti e mediante compromessi di natura clientelare, di deputati conservatori e moderati, con la formazione di una nuova maggioranza. Un clamoroso ribaltone, uno dei tanti dei quali è ricca la storia politica italiana. A cominciare dai repubblicani diventati monarchici nel risorgimento e monarchici diventati repubblicani qualche decennio dopo o fascisti divenuti comunisti.
Nella terra degli inciuci, dei connubi e dei trasformismi è possibile che non si trovi un modo per governare il Paese? Il motivo è semplice: non c’è uno statista vero, quello che, per dirla con Alcide De Gasperi, che guarda alle al di là degli interessi di partito e si preoccupa delle prossime generazioni, pronto a capire che il Movimento 5 Stelle è espressione di una protesta che affonda le sue radici nel cattivo governo degli ultimi venti anni, una protesta che potrebbe essere assorbita da una personalità capace di incarnare un rinnovamento che trovi la sua forza non nelle parole ma nei fatti, concretamente, immediatamente perché il tempo è scaduto.
E, poi, quali interessi di partito difendono i Bersani e i Berlusconi nella prospettiva di un voto ravvicinato che inevitabilmente darebbe a Beppe Grillo ed ai suoi una vittoria schiacciante?
Insomma, è come allungare la corda nella speranza che ci si impicchi più tardi.