Spesa pubblica: tagli forsennati fanno male all’economia

Matteo Renzi. Spesa pubblica da tagliare e da non tagliare

Salvatore Sfrecola ha pubblicato questo articolo anche sul sito Un sogno italiano.

 La spesa pubblica è eccessiva e danneggia l’economia del Paese, nel senso che sottrae risorse all’economia reale. Più o meno è questa l’osservazione e la critica che si sente ripetere. Tema all’ordine del giorno dell’agenda del Governo e dei partiti con obiettivi di riduzione o risparmi, per gli esterofili spending review.

Vediamo di approfondire, con riferimento alla composizione della spesa che si distingue nei bilanci in “missioni” e “programmi”, quel che un tempo neppure tanto lontano, si indicava in spesa corrente o di funzionamento (o di mantenimento) e in conto capitale (o di investimento).

La prima riferita al costo dei servizi, dal personale alle prestazioni rese dalle pubbliche amministrazioni, compresa la sanità, la seconda alla realizzazione di opere pubbliche. Uno schema che richiamiamo perché più facilmente percepibile. Del resto uno dei requisiti dei bilanci è da sempre la “chiarezza”, nel senso che le voci di spesa siano percepibili da un cittadino “medio”.

La spesa sotto osservazione ai fini della sua riduzione, dunque, è quella corrente, quantitativamente e qualitativamente la più rilevante.

Perché è gran parte degli oltre 800 miliardi annui di cui si parla nel dibattito di questi mesi ed assicura i servizi che le leggi attribuiscono alle P.A., le funzioni essenziali che ricadono nelle missioni.

Non solo la sanità e la scuola, la difesa e la sicurezza, la giustizia e la previdenza, tanto per fare alcuni esempi, servizi la cui qualità è apprezzata o apprezzabile dai cittadini.

È utile questa spesa? Sicuramente alla generalità dei cittadini per i servizi che rende, se efficienti, e perché assicura a molte migliaia di soggetti un reddito.

Direttamente ai professori, ai medici, ai militari, ai poliziotti, ai giudici. Ma anche ai fornitori di beni e servizi necessari all’esercizio di quelle funzioni, dalle matite ai computer, dalle armi (dei corpi militari e di polizia) alle siringhe degli ospedali.

Oltre ad essere utile questa spesa è anche eccessiva? E qui si pone un problema di sprechi sui quali i governi da sempre lavorano o dicono di lavorare. Negli ultimi anni con un Commissario ad hoc, in atto Carlo Cottarelli. Non possiamo, infatti, permetterci sprechi, perché impediscono di realizzare una migliore qualità dei servizi o, addirittura, altri servizi. Inoltre gli sprechi assai spesso nascondono illeciti.

Nel senso che l’amministratore o il funzionario che spreca (che compra cose inutili o ad un prezzo eccessivo rispetto a quello di mercato) o è un incompetente o, più spesso, un corrotto.

Agisce così per fare un piacere a qualcuno (l’imprenditore fornitore di beni e servizi) e trarne un vantaggio personale, se non in denaro (la classica “mazzetta”) in “altra utilità”, fattispecie di corruzione secondo l’art. 318 del codice penale, che vuol dire l’assunzione o una consulenza per il figlio o per l’amica del cuore.

Con queste precisazioni è evidente che la spesa pubblica necessaria alimenta l’economia del Paese, nel senso che, nel rendere servizi alla comunità, mette a disposizione di alcuni cittadini dipendenti pubblici somme da spendere nel mercato interno (consumi) ed attiva un circuito produttivo di beni e servizi ceduti alle Pubbliche amministrazioni che, a sua volta, genera benessere, posti di lavoro e attiva forniture necessarie per le produzioni.

È evidente, dunque, che le pubbliche amministrazioni globalmente considerate costituiscono il primo operatore economico del Paese.

Si ritiene necessario comunque ridurre la spesa pubblica limitando i servizi che rendono le Pubbliche Amministrazioni?

Si può certamente fare, anzi in molti casi si deve fare, ma occorre considerare i tempi di una trasformazione di vaste aree del sistema produttivo che determini una riconversione delle imprese fornitrici delle P.A., specie di quelle che lo sono in via esclusiva o pressoché esclusiva.

Un po’ come accade dopo una guerra, quando le fabbriche di cannoni chiudono e gli imprenditori ricercano altri sbocchi merceologici, magari costruendo trattori per l’agricoltura, camion o treni.

In sostanza la riduzione della spesa pubblica non può essere condotta senza avere presente il quadro complessivo dell’economia del Paese, per evitare di mandare in crisi vasti settori produttivi in un momento di difficoltà per l’occupazione, settori che dovranno essere altrimenti assistiti, con ulteriori, gravi problemi economici e sociali.

La conclusione è preso detta. Governo e Parlamento cui competono le decisioni di spesa, devono operare su più piani, avendo tuttavia presente un modello di sviluppo dell’economia italiana che abbia la necessaria flessibilità per assorbire, in un quadro d’insieme virtuoso, le trasformazioni richieste dalle prospettive che si pongono al Paese, partendo dalla lotta immediata agli sprechi e da una riduzione della spesa che non scardini settori produttivi vitali per la realtà di alcune regioni italiane, contemporaneamente puntando su produzioni e servizi per i quali è ragionevolmente prevedibile una espansione.

Oltre alla consueta, ma sempre da incrementare, manifattura italiana di qualità, dall’abbigliamento alla ceramica, all’agroalimentare, il turismo che non riusciamo a far crescere nonostante l’Italia abbia tutti i requisiti per essere ai primi posti nel contesto mondiale, un patrimonio storico artistico, con una importante componente religiosa, che non ha di eguali ed ovunque conosciuto, ed un ambiante naturale per cui fu definita un tempo “il bel Paese” o “il giardino d’Europa”.

Incompetenza e pressappochismo ci hanno fatto perdere quote del mercato turistico mondiale. Un declino che oggi dobbiamo assolutamente fermare.

Intanto, nel dibattito sul da farsi per la crescita si parla di interventi su stipendi e pensioni. Per ridurli, ovviamente.

Il Presidente del Consiglio ha detto nei giorni scorsi che non si possono tagliare le retribuzioni. Anche se in parte lo ha già fatto, sia pure riducendo le più elevate che, peraltro, corrispondono a particolari e preziose professionalità che d’ora in poi saranno scoraggiate.

E adesso si parla di prelievi sulle pensioni più “alte”, che dovrebbero comprendere anche quelle “d’oro”. È un problema di misura. Si estende l’area presa di mira. E qui c’è incertezza. Che preoccupa.

 

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Marco Benedetto