Tangenti, provvigioni e commissioni: regole di trasparenza, senza ruberie

Luigi Zanda: distinguere provvigioni da tangenti

La corruzione, in Italia, nelle parole del Presidente della Corte dei contiLuigi Giampaolino,

“è divenuta da fenomeno burocratico/pulviscolare, fenomeno politico–amministrativo-sistemico”.

Ultimo caso che ha anche risvolti internazionali e implicazioni industriali qui da noi (il Governo indiano potrebbe sospendere il pagamento della fornitura per non essere accusato di comprare previa mazzetta) è lo scandalo delle tangenti che sarebbero state pagate per la vendita di elicotteri Agusta all’ India.

Si è registrato un aspro scontro fra Berlusconi e Bersani, sono intervenuti Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’ Eni  e Luigi Zanda, vice presidente dei senatori del Pd.

C’’è una realtà, della quale Berlusconi, che è uomo di mondo, dice di essere consapevole: senza distribuire mazzette in molti mercati, anche tra i più grossi, non si entra. E non solo nelle aree dove la politica domina incontrastata anche le scelte delle amministrazioni, in particolare terzo mondo e paesi dove dominano dittature, specie se ammantate da bulgare democrazie.

Però chi legge sistematicamente la stampa internazionale scopre che quasi ogni giorni nella moralista America, che dà lezioni di etica al mondo, arrestano qualcuno per tangenti, in soldi o natura, specie nel campo delle forniture militari.

E pagano tutti: ricordiamo i guai della Siemens, come esempio paradigmatico.

È inutile far finta che non sia vero. Dice Bersani:

“Non escludo che succeda, ma non dovrebbe succedere” e invoca “codici di comportamento su scala europea perché ci deve essere la garanzia che i vertici aziendali siano responsabili di protocolli condivisi che escludano vicende di questo tipo. Vogliamo avere un mercato pulito”.

Come ho avuto occasione di affermare,

probabilmente avviene quasi dovunque. Magari si chiamano provvigioni, che, quando sono “pulite”, costituiscono un istituto noto al diritto civile nell’ambito del contratto di commissione (art. 1731 C.C.) e disciplinato nei particolari, tanto che se la misura della provvigione spettante al commissionario non è stabilita dalle parti si determina secondo gli usi del luogo in cui è compiuto l’affare.

In mancanza “provvede il giudice secondo equità” (art. 1733 C.C.). Se il contratto di fornitura, dunque, è stipulato a seguito di mandato (commissione) va pagata la provvigione, che è cosa diversa dalla tangente o mazzetta, che dir si voglia. Ma potrebbe inglobarla. Nel senso che il commissionario potrebbe aver dovuto “ungere” qualcuno e, pertanto, voler rientrare dal pagamento illecito che ha fatto per conto del cliente.

Ha certamente ragione Berlusconi sulla necessità di pagare tangenti per un’impresa italiana che opera in certi mercati. Per cui effettivamente senza mazzetta in quei mercati non si entra. Di fronte a questa realtà, che penalizzerebbe le imprese italiane si possono assumere due atteggiamenti. Di assoluto rifiuto della ipotesi di ammettere questi pagamenti, come dicono Bersani e Zanda o Scaroni, il quale afferma che non è necessario pagare per ottenere commesse, o si disciplina la materia.

Non è facile ma è necessario, considerato che, come si è detto, laddove la corruzione dilaga a livello politico e amministrativo o dei grandi enti di stato senza mazzetta non si fanno affari. È giusto dire, come fa Luigi Zanda, che

“un conto sono le commissioni legali pagate come compenso per attività professionali di intermediazione legalmente esercitate. Altra e ben diversa cosa sono le tangenti pagate a pubblici ufficiali, ad amministratori, a parlamentari stranieri per facilitare sottobanco l’acquisizione di commesse e forniture. Questa è ‘corruzione di pubblico ufficiale straniero‘”.

Infatti, la fattispecie è disciplinata dall’art. 322-bis del codice penale. La questione è delicata, anzi delicatissima. Perché occorre trovare il modo per contabilizzare in bilancio una somma che non può essere giustificata non solo da una fattura ma neppure da una ricevuta, sia pure informale. Considerato anche il sospetto, che è stata certezza in molti casi, che una parte della somma destinata ad “ungere” la ruota estera sia poi rientrata in Italia a vantaggio dello stesso manager o dei partiti di riferimento.

In sostanza il pagamento della tangente ha dato luogo ad una “ritenuta” dalla incerta destinazione. Mi rendo conto che non è facile definire questa materia, ma in qualche modo occorre provvedere, altrimenti delle due l’una o si esce da certi mercati o si mettono a rischio manager capaci di ottenere commesse, cosa non facile. Anche perché bisogna avere relazioni importanti per non vedersi rifiutata la mazzetta, magari con il rischio di una denuncia.

Tenendo presente che è una assoluta ipocrisia pensare che in certi mercati sia possibile presentarsi e partecipare a gare “pulite” e che uscire dalla competizione significa per una impresa rinunciare a produzioni, con effetti sull’occupazione, il legislatore deve individuare un sistema trasparente che consenta di iscrivere in bilancio la “spesa” per la tangente, senza che essa venga alla luce come tale, in quanto potrebbe creare problemi al percettore estero della somma.

Occorre trovare la definizione di questa spesa che in qualche modo va anche documentata. In sostanza è una commissione che non può apparire, anzi va accuratamente oscurata, ma che è stata pagata e che, pertanto, non può essere estranea al bilancio della società o dell’ente italiano, anche ad evitare il dubbio che l’agente che ha provveduto al pagamento abbia fatto la “cresta” e si sia intascato, per se e/o per gli amici parte di quanto è stato destinato al corrotto estero, il quale non deve neppure sospettare di aver fatto la figura di essere stato più esoso del vero, cioè di aver incassato più di quel che si è effettivamente messo in tasca.

Mi rendo conto che nella Tangentopoli che disgusta, oggi più che mai, gli italiani, convinti che sia peggio di prima, la “catastrofe etica” di cui parla Bersani non può essere negata. Ma una cosa è combattere la corruzione in Italia dov’è possibile, e meglio si potrebbe fare se la legge anticorruzione fosse stata confezionata con maggiore attenzione, altro è tener conto in qualche modo della realtà di alcuni mercati corrottissimi, senza incappare nella previsione dell’art. 322-bis che punisce la corruzione di persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di stati esteri.

Si potrebbero prevedere spese “di rappresentanza” da commisurare insieme a quelle, eventuali, di provvigione all’importo della fornitura, da giustificare dall’ amministratore o funzionario dell’impresa italiana con una dichiarazione giurata da mantenere conoscibile solo per la magistratura e gli organi di controllo e non tassabile dal fisco?

O c’è altra soluzione, la quale dia certezza che il pagamento sia condizione sine qua non della fornitura, secondo gli “usi” del posto (un eufemismo giustificato da una sorta di ragion di Stato)?

Qualcosa comunque va fatto perché, come dice Bersani, con molto equilibrio, quando non esclude che succeda, anche se “non dovrebbe succedere”, ed invoca “codici di comportamento su scala europea” perché i vertici aziendali siano responsabili di protocolli condivisi “che escludano vicende di questo tipo”.

Occorre, in sostanza, una regola che presupponga una iniziativa necessitata e, a suo modo, trasparente, anche se in ambito limitato perché si sappia che quella iniziativa è stata fatta nell’interesse dell’impresa e, in fin dei conti, dell’economia nazionale. Sono temi da dibattere.

E con questo spirito presento le riflessioni che precedono. Nella consapevolezza degli ambiti ristretti di una disciplina che consideri una realtà dalla quale non si può prescindere e che non possono essere solamente le imprese italiane ad ignorare. L’ipocrisia non fa emergere la realtà ma la perpetua e l’aggrava. In certi casi è bene trovare una soluzione la quale garantisca che la “provvigione” anomala sia pagata per un interesse effettivo alla fornitura o all’ appalto e che nessuno dei nostri, manager o politici, si sia messo in tasca qualcosa.

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Marco Benedetto